Warsan Shire, “Benedici la figlia cresciuta da una voce nella testa” (a cura di Annachiara Atzei)

Cosa ci rende umani? A quale luogo apparteniamo, quali sofferenze passano dal corpo o a quale Dio rivolgerci sono le domande che Warsan Shire si pone in Benedici la figlia cresciuta da una voce nella testa (Fandango libri) – in corso di pubblicazione in undici paesi – che raccoglie i testi scritti dall’autrice britannica dal 2011 a oggi.
Il lavoro di Shire si ispira alla sua vita e alle sue origini. Nata in Kenya da una famiglia somala scappata dal conflitto civile, quando aveva appena un anno si trasferisce con i genitori a Londra. A partire da quella vicenda, comincia a raccontare della violenza della guerra, della nostalgia dei rifugiati e del disagio di abitare un corpo femminile, specialmente se nero.
Ci troviamo di fronte a una poesia rivelatrice che al tempo stesso risplende di un significato intimo. Il colore della pelle e l’essere donna sono la lettera scarlatta, il marchio che mette in dubbio l’essenza della persona: “Mentre ti lavi il corpo ti accorgi che non è il tuo./ E allo stesso tempo è l’unico corpo che hai”, scrive, e aggiunge ancora: “La mia bellezza qui non è bella. Il/ mio corpo brucia per la vergogna di non appartenere (…)/ Sono il peccato della memoria/ e l’assenza di memoria”. Ogni componimento fa prima di tutto i conti con il passato e con l’angoscia di bambina non voluta: “Benedici la bambina,/ membrana di scontento/ santa patrona del non/ abbastanza buono”.
Ne viene fuori una poetica dello sradicamento e del senso di colpa che non trascura di descrivere la solitudine, la memoria compromessa e la perdita di dignità di chi si trova strappato al proprio paese – e, soprattutto, a sé stesso – ma anche la difficoltà di pensare a una vita che non sia condizionata dall’essere senza patria.
Assieme alla durezza di nascere estranea al mondo, la brutalità della costrizione di lasciare il luogo di provenienza è una delle riflessioni che il libro propone: “Nessuno lascia casa a meno che non sia la bocca/ di uno squalo. Fuggi verso il confine solo quando vedi/ che tutta la città è in fuga (…)/Lasci/ casa solo quando è la casa a scacciarti”. Shire fa in modo che il lettore si confronti con un’esperienza difforme dalla propria e si cali in una realtà lontana – che si sottrae alla comprensione di chi è bianco e vive in Occidente – e lo fa tentando un avvicinamento che è prima di tutto emotivo. L’autrice chiede ripetutamente una benedizione: benedici la tua figlia brutta, benedici i nostri corpi azzurri, benedici questa casa, benedici il sangue sono alcune delle invocazioni che rivolge non solo a Dio, ma agli uomini per trovare tolleranza in chi la circonda. La benedizione, qui, passa attraverso la parola che diventa, per chi scrive, dispositivo di relazione e, in qualche modo, esercizio di umanizzazione, accoglienza e ascolto. Da un lato, il suo rapporto con Dio rimane travagliato e irrisolto, ma dall’altro, riconoscersi come un individuo tra gli altri la spinge a instaurare dei legami e a portare avanti un’idea di comunanza che sia salvifica per ciascuno.
Se la letteratura ha il potere di ridefinire il vero, di ipotizzare il concretizzarsi di un fatto insperato e di portarne alla luce il volto nascosto, Warsan Shire esercita questo diritto immaginando di riavvolgere il nastro dell’esistenza per rimettere le cose nel giusto ordine e trovare un’assoluzione per chi è stato solo capace di odio: “Riscriverò tutta questa vita e questa volta ci sarà tanto amore,/ che non riuscirai a vedere altro”, scrive, e sintetizza in pochi frammenti il desiderio di un bene diffuso fino ad assegnare alla scrittura il compito di ricucire le lacerazioni vecchie e attuali.
Così facendo, la poesia diventa fulcro di rinascita e, nel definire un orizzonte nuovo, appare come il luogo possibile dove poter stare. Come profetizzava Pier Paolo Pasolini nel 1964 nel testo frutto della conversazione con l’amico Jean-Paul Sartre che tutti conosciamo col titolo di Alì dagli occhi azzurri, Shire prova a insegnarci a essere liberi – in primis dai pregiudizi – e cerca nell’unità tra gli uomini il senso più autentico del vivere. Ci mostra, attraverso lo sguardo di chi ha sperimentato il dolore, cosa ci identifica: il sentimento e l’empatia come veicolo di consapevolezza, autodeterminazione e solidarietà.

 

A cura di Annachiara Atzei


Cinque poesie da Benedici la figlia cresciuta da una voce nella testa (Fandango libri, 2023)

Casa

Nessuno lascia casa a meno che non sia la bocca
di uno squalo. Fuggi verso il confine solo quando vedi
che tutta la città è in fuga. Il ragazzo con cui andavi a
scuola, che ti stordiva di baci dietro la vecchia fabbrica di
lattine, ora impugna una pistola più grande di lui. Lasci
casa solo quando è la casa a scacciarti.

Nessuno lascerebbe casa a meno che non sia la casa a
buttarlo fuori. Non avevi mai pensato di farlo, e quando
l’hai fatto, hai mormorato l’inno nazionale a mezza
bocca, hai aspettato fino al bagno dell’aeroporto per
strappare il passaporto e ingoiarlo, a ogni triste boccone
ti era chiaro che non saresti più tornata.

Nessuno mette i figli su una barca, a meno che l’acqua
non sia più sicura della terra. Nessuno sceglie giorni e
notti nel ventre di un camion a meno che le miglia per-
corse non valgano un po’ più del viaggio.

(…)
*

Benedici la figlia brutta

Conosce a fondo la perdita.
Bambina evitata dai parenti,
sembrava legno scheggiato, odorava
di acqua di mare, richiamava
la sete, la guerra.

Neonata costretta a sciacquarsi la bocca con acqua
di rose, affumicata nell’uunsi per ogni
impurità che ha ereditato.

Tua figlia ne è piena.
I denti sono piccole colonie,
lo stomaco un’isola,
le cosce sono confini.

Pochi vorranno starsene sdraiati
a guardare il mondo che brucia
dalla stanza da letto.

La faccia di tua figlia è un piccolo tumulto,
le sue mani una guerra civile,
dietro ogni orecchio si nasconde un campo
di rifugiati, il suo corpo, un corpo sporcato
di brutte cose

ma Dio,
come lo porta bene
il mondo.
*

Mio padre, l’astronauta

Se la luna era l’Europa, mio padre era l’astronauta che morì
mentre andava sulla luna.
Mio padre, l’esploratore lunare mancato, accecato dallo
spazio. Mio padre, il cosmonauta nero, in delirio
per la sete. Mio padre che sentì la voce di Dio, chiara come
il richiamo alla preghiera, sospesa in quel deserto oscuro.
Mio padre con la tuta spaziale squarciata dal desiderio, che
avanzava vorticando nel vasto deserto.
Una notte, dopo che gli angeli avranno richiuso le ali,
potresti scorgere mio padre
che sfreccia nello spazio, il suo corpo trasportato dall’
assenza di gravità, il sangue che gli va alla testa,
le sue lacrime, grumi rosa viscosi, incapaci di cadere.
*

All’indietro

La poesia può cominciare con lui che entra all’indietro in una stanza.
Si toglie la giacca e resta seduto per il resto della vita,
è così che ti riportiamo indietro papà.
Posso farmi risalire il sangue dal naso, le formiche saltano in un buco
I nostri corpi diventano più piccoli, i miei seni scompaiono,
le tue guance si fanno morbide, i denti riaffondano nelle gengive.
Posso farci amare, basta che tu lo voglia.
Mozzagli le mani anche se solo una volta ci hanno toccato senza permesso,
Posso scrivere la poesia e farla scomparire.
Il patrigno risputa il liquore nel bicchiere,
Il corpo di mamma rotola all’indietro su per le scale, l’osso si rimette a posto,
forse terrà il bambino.
Forse andrà tutto bene, ragazzina?
Riscriverò tutta questa vita e questa volta ci sarà tanto amore,
che non riuscirai a vedere altro.

Non riuscirai a vedere altro,
Riscriverò tutta questa vita e questa volta ci sarà tanto amore,
Forse andrà tutto bene, ragazzina,
forse terrà il bambino.
Il corpo di mamma rotola indietro su per le scale, l’osso si rimette a posto,
Il patrigno risputa il liquore nel bicchiere.
Posso scrivere la poesia e farla scomparire,
mozzagli le mani se anche una volta sola ci hanno toccato senza permesso,
posso farci amare, basta che tu lo voglia.
Le tue guance si fanno morbide, i denti riaffondano nelle gengive
I nostri corpi diventano più piccoli, i miei seni scompaiono.
Posso farmi risalire il sangue dal naso, le formiche saltano in un buco.
è così che ti riportiamo indietro papà.
Si toglie la giacca e resta seduto per il resto della vita,

La poesia può cominciare con lui che entra all’indietro in una stanza.
*

Hooyo è andata via
da Idra Novey

Quando avevamo 5, 6 o 7 anni.
Quando la guerra nel nostro paese non finiva mai.
Mentre le nostre madri dormivano.
Mentre ci cacciavano i denti di latte giù per la gola.
Prima che Israfil increspasse le labbra e sospirasse.
Prima che le areole si spandessero come inchiostro.
Oltre la soffice polpa dei datteri.
Oltre lo specchio, qualcosa ci osserva.
Dopo che entrato di soppiatto nella stanza da letto.
Dopo che ti sei strappata quasi tutti i capelli.
Come madri che ci portano dagli esorcisti.
Come tentacoli che ci spuntano dalle gonne.
Mentre le statistiche dicono 1 ragazza su 3,1 ragazzo su 5.
Mentre il santone ci inonda di tahlil.
Quando il corpo ricorda, scalcia selvaggiamente.
Quando cerchiamo di guarire, l’odore fantasma ritorna.
Mentre sotto la doccia, hai una crisi di nervi.
Mentre ti lavi il corpo ti accorgi che non è il tuo.
E allo stesso tempo è l’unico corpo che hai.
*

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un’icona per effettuare l’accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s…

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.


%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: