In un panorama editoriale saturo di pubblicazioni, che per eccesso di titoli in uscita rischiano di soffocare la qualità a discapito della quantità, esistono ancora isole felici.
Scritture radicali, che non hanno paura di guardare in faccia l’abisso, e che si consegnano volentieri agli artigli dei propri demoni: perché la scrittura non è mai terapeutica, come scrive Michele Mari: alcuni scrittori «hanno nell’ossessione non solo il tema principale ma l’ispirazione stessa» e scrivendo «finiscono di consegnarsi inermi agli artigli dei demoni che li signoreggiano».
Questo è lo spirito che anima la nascita di questa rubrica, dal titolo che rimanda al celebre romanzo di Balzac Illusioni perdute: le vicende di Lucien, aspirante scrittore nella Parigi della prima metà dell’Ottocento, sono lo specchio di una società in cui le aspirazioni di ognuno fanno a pugni con i giochi di potere, gli inganni e le sopraffazioni per svettare sopra gli altri.
La ricerca di nuove voci capaci di sorprendere, di raccontare le metamorfosi del tempo in cui viviamo abbagliati da uno schermo luminoso qualunque, perennemente acceso come un faro sulla notte del mondo: gli esordienti e la scrittura, questo è l’ordine del discorso.
– Omar Suboh

Anche Proust pippava: Il bikini di Sylvia Plath, l’esordio di Giada Biaggi
«La nostra epoca di relazioni digitalizzate aveva fatto con l’atto sessuale quello che Kazimir Malevič aveva realizzato con il Quadrato nero; lo aveva oscurato, appeso nell’angolo di una stanza in un posto molto freddo della Russia; condannando così il piacere scopico e il desiderio di possesso verso l’oggetto del desiderio a un’ossessione iconoclasta».
Eva Morandi è una brillante aspirante accademica in Filosofia dell’arte a Milano, l’università è la Cattolica, il suo lavoro di ricerca si concentra sulla performance femminista di artiste donne che hanno contrastato attraverso le loro creazioni il patriarcato negazionista – lo spettro oscuro che si nasconde anche negli ambienti apparentemente più progressisti come quelli del mondo della cultura, o delle Fondazioni –, vive in un monolocale in centro, e alterna i suoi studi alle mostre e agli after–party d’ordinanza. È dipendente dalla cocaina, che consuma sistematicamente come un rituale iniziatico, sempre rigorosamente pippando sopra le copertine dei capolavori della filosofia e della letteratura: La nascita della tragedia, Frammenti di un discorso amoroso, Lettera sull’ ”umanismo”, La vita interiore ecc…
È impegnata in un dialogo costante e immaginifico – o allucinatorio – con Sigmund Freud, David Foster Wallace e Nanni Moretti, i quali dispensano interrogativi e testimonianze del loro vissuto incastrandosi con gli episodi della sua vita: «Metto la bandana solo perché non mi piace che mi si veda sudare tanto in fronte. Le scelte estetiche e in fatto di hobby degli scrittori sono spesso sopravvalutate», le rivela Wallace a un certo punto, quando Eva arriva a autodiagnosticarsi una «forma di psicosi allucinatoria con tutta probabilità provocata dal mio abuso di cocaina», la stessa che aveva portato Robert Louis Stevenson a scrivere in soli tre giorni e tre notte consecutive il suo capolavoro Lo strano caso del dottor Jeckyll e Mr. Hyde.
Eva intrattiene una relazione di sexting su Instagram con Ludovico Montesanti, esponente d’élite del mondo dell’arte contemporanea, curatore di mostre come quella organizzata alla Fondazione Prada per la personale di Sarah Lucas – in uno dei capitoli più cinematografici del romanzo, dove assistiamo a una carrellata di esponenti di spicco del mondo che gravita intorno ai più importanti eventi culturali del paese, e non solo, come videomaker, stylist, fashion editor di Vogue Italia, influencer, producer, fotografi di album musicali come quelli della band di successo del momento dal nome evocativo di Kunsthalle (il cui frontman e cantante, Giosuè, verrà contattato da Eva attraverso l’app di appuntamenti Tinder) o il mitologico filosofo francese Marc Poulin, autore dell’opera La vita sessuale di Kant, e militante per la causa di Roman Polański e il suo diritto a presenziare alla Mostra del Cinema di Venezia, e tanti altri –.
Relazione virtuale che procede da mesi senza portare mai a uno sbocco concreto nella vita di Eva, generando una spirale di ansie frustrate e di smania di incontrarsi per portare a compimento quel rapporto tanto voluto quanto tossico: Ludovico, infatti, intrattiene una relazione con un’altra donna, Ginevra, che lo mantiene («segno del suo progressismo o la versione neoliberale della loro affinità elettiva») e che dormirebbe nella stanza accanto alla sua – pur conviventi, i due dormono in camere separate –, ma impressionato dall’acume intellettuale e dalla carica erotica di Eva alimenta la relazione in uno scambio di messaggi quotidiano, ma sempre conforme al rispetto del «distanziamento erotico del desiderio della nostra chat». Il ritratto che si materializza tra le pagine è quello di un personaggio essenzialmente viscido, «che ti penetrava con gli occhi se eri un minimo carina, un minimo sotto i trent’anni e un minimo nel giro», che non perde mai occasione per affermare pubblicamente il proprio femminismo praticante ma che in realtà nasconde un radicato e profondo sessismo – «ma per il mondo allucinato dell’arte contemporanea e della cultura milanese era una suffragetta con il cazzo» –. Emerge una visione radicalmente compromessa da allusioni sessuali, implicite o no, dove a dettare legge sono ancora i maschi bianchi eterosessuali e mediamente acculturati, che si nascondono dietro un femminismo di facciata «per pulirsi la coscienza con lo grassatore universale della parità di genere».
Il bikini di Sylvia Plath (nottetempo, 2022) di Giada Biaggi, è molto di più di un libro su una storia d’amore tossica o sulla dipendenza da sostanze e su quella affettiva verso qualcun altr*: è indagine filosofica e sociologica su una società, quella occidentale, che sembra non abbia più nient’altro da offrire se non i suoi prodotti firmati, come scrive Michel Houellebecq in Piattaforma. Non a caso l’autrice si sofferma ossessivamente sulla minuziosa riproduzione di marchi e dettagli degli abiti indossati dai suoi personaggi, che si muovono come in un teatro il cui sfondo è più nero dei cerchi e dei quadrati dipinti da Malevič e evocati dalla scrittrice, ma sempre impeccabili in superficie, abbagliati dalle luci – All of the Lights, come il celebre brano di Kanye West con Rihanna e Elton John – che li rendono il riflesso di qualcosa di più grande a cui ritornare, come in un viaggio verso le origini.
Romanzo di deformazione: inseguiamo un autobiografismo finzionale che, attraverso le parole di Eva e le sue vicende – le relazioni che si susseguono come quelle occasionali con Alberto, o le rievocazioni della sua storia con l’ex storico Giovanni, Ludovico e Giosuè, ma anche il rapporto con il padre, accademico che vive e insegna a Berlino, la madre ex valletta di Colpo grosso negli anni Ottanta, i relatori di dottorato come Patrizio Bianchi autore di una biografia dell’artista Vanessa Beecroft, la migliore amica Diletta che si taglia ciclicamente la frangetta per assomigliare ad Anna Karina (ricca sfondata al punto che si accontenta di fondare una rivista che indaga il «rapporto tra arte e vino») ecc. –, si districa tra il mansplaining degli uomini convinti di sapere più di lei, in quanto donna, e un analfabetismo affettivo diffuso in un’epoca che ha ridotto la complessità dei sentimenti in “icone emotive”.
È lenta discesa nella follia – un po’ come Il libro della follia di Anne Sexton – della creazione emancipatrice: dalle relazioni tossiche e virtuali – odiate ma, al contempo, inseguite –, dalla subordinazione subita da secoli di patriarcato dominante in qualsiasi settore della vita sociale e politica, per un approdo verso il porto dell’anima, quello più sicuro di tutti: la poesia, in particolare la poesia di Sylvia Plath.
I versi della scrittrice si scoprono l’unico strumento per mettere ordine al caos interiore, la cui presenza sembra stagliarsi perennemente sullo sfondo, attraversandone il testo, intensificandone il livello simbolico. Scritto con un linguaggio deflagrante e tagliente, comico e drammatico, costellato di citazioni e riferimenti puntuali, passando dalla cultura pop a quella più prettamente letteraria e filosofica – glitterato come un film di Alexis Langlois ma profondo e intenso come Lezioni di piano di Jane Campion –.
Se nella Campana di vetro l’albero di fichi rappresentava il simbolo dei frutti della vita che la protagonista vorrebbe assaporare tutti quanti, senza escluderne nessuno, qui il simbolo che tutto condensa – lo Zeitgeist dell’era della post riproducibilità tecnica dei sentimenti ridotti alle emoji – potrebbe essere lo schermo perpetuamente illuminato dei nostri smartphone: «In quel magma digitale e globalizzato fatto di pixel asettici e batteri sui nostri schermi eccessivamente retroilluminati, che ci rendevano le pupille secche e disidratate». Lo stesso che ci vende illusioni di benessere attraverso le sue app di mindfullness come Calm, per assecondare il nostro riposo riproducendo i suoni degli «scarponcini sulla neve, il rumore del fuoco scoppiettante sulla legna nel camino, un fornello che si accendeva per scaldare l’acqua, l’acqua che scendeva dal pentolino e si versava nelle tazze da tè», tra una chat aperta mentre si fa sexting con uno sconosciuto, matchiamo su Tinder e, come la protagonista, facciamo una diretta su Onlyfans («mi ero inventata questo concept performativo in cui mi mettevo nuda con dei copricapezzoli glitterati a forma di conchiglia […] e leggevo classici della letteratura russa senza fare niente di particolarmente esplicito a livello sessuale se non inumidire il dito, che assurgeva a simbolo fallico, leccandolo in maniera provocante per girare le pagine»): il tutto mentre guardiamo, contemporaneamente, un documentario sui campi di concentramento in una qualche piattaforma in streaming.
La metamorfosi dello spirito del tempo passa attraverso libri come questo, capace di immortalare in un’istantanea perpetua – sospesa come sopra i grattacieli pieni di alberi del Bosco Verticale, «il nuovo manifesto green della città», dove Eva si reca per comprare la cocaina dal suo pusher di fiducia, Paolo, che la accoglie sempre in accappatoio Versace – la fine di un’Era, segnata dall’impermeabilità al principio di realtà di freudiana memoria, mentre parallelamente scorre il mondo del sogno, lo stesso in cui, come scrive Sylvia Plath, «niente ha mai veramente inizio, con la maiuscola, ma fluisce da ciò che viene prima». Raggiungere la petit morte, il picco di ogni piacere possibile che coincide con le pulsioni di morte di Georges Bataille, liberandosi di tutto il resto: senza più spettatori, rinchiusi nella prigione delle braccia di un corpo vero, questa è la meta del viaggio intrapreso da Eva. Dove non ci sono più effetti speciali a incorniciare i nostri momenti di quotidianità pubblicati su ogni piattaforma – condannati a diventare «rettangoli istantanei di contemporaneità condivisa», sentendoci in colpa per non avere messo su Instagram la pizza appena mangiata in qualche ristorante stellato –, dove vengono hackerati i concetti di tempo, memoria e apparenza: «Una società che aveva reso il drappeggio bagnato delle statue un orpello inutile, lasciandoci nude e nudi davanti al presente».
Una rubrica a cura di Omar Suboh
2 risposte a “Illusioni ritrovate: ‘Il bikini di Sylvia Plath’, l’esordio di Giada Biaggi (una rubrica a cura di Omar Suboh)”
Ma vi siete ridotti a pubblicare le lodi degli scarti da semicolti che pubblica Nottetempo cercando inutilmente di venderli a suon di lubrificanti e book trailer soft porn? Che finaccia.
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Caro Alessandro, nessuna fine – per fortuna!, non ancora -. Non cosa intendi con “lodi degli scarti semicolti”, ma se fossi in te leggerei il libro prima di scrivere scarti di commenti come questo.
Ps. Perché questa contrarietà verso i lubrificanti? non hanno mai fatto male a nessuno!
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