
Bisognava scrivere senza perché, senza per chi. / Il corpo si ricorda di un amore come un accendersi la lampada. / Il silenzio è tentazione e promessa.
(Fuga in lilla, Pizarnik)
E Joseph Ponthus (1978-2021), pseudonimo di Baptiste Cornet, per fortuna non resta in silenzio quando nel 2015 si trasferisce in Bretagna per amore e inizia a lavorare come operaio interinale nell’industria agroalimentare, dopo aver rivestito il ruolo di operatore sociale nelle banlieu francesi.
Nel 2019 viene pubblicato À la ligne. Feuillets d’usine (Éditions La Table Ronde, Paris, 2019), il suo esordio letterario divenuto in patria un caso editoriale che lo consacra come uno dei cantori della working class contemporanea.
Pubblicato ora da Bompiani, Alla linea, è un oggetto letterario che è stato definito dalla critica ‘romanzo in versi liberi’, prosimetro, romanzo-poema di tipo autobiografico, scrivendo Ponthus della propria esperienza in fabbrica dopo aver subito una sorta di riproletarizzazione o declassamento, lui giovane francese laureato e colto, ma di estrazione popolare che, non riuscendo a trovare lavoro nel suo settore in Bretagna, si rivolge alle agenzie interinali e sottotono, senza eroismi, entra in fabbrica:
Non ci andavo per fare un reportage/ Men che meno per preparare la rivoluzione/ No/ La fabbrica è per i soldi/ Un lavoro per campare/ Come si dice/ Perché mia moglie è stufa di vedermi buttato sul divano in / attesa di un lavoro nel mio settore
È una storia che accomuna tanti della sua e delle successive generazioni e forse anche da qui il meritato successo (vincerà i premi Grand prix RTL-Lire, prix Régine-Deforges, prix Jean-Amila-Meckert, Prix du premier roman par les lecteurs des bibliothèques de la Ville de Paris, Prix Eugène-Dabit du roman populiste a giugno 2020).
La pubblicazione dell’opera gli costerà però l’immediato licenziamento dalla fabbrica, nonostante siamo lontani da un testo che voglia sollevare uno scandalo su ciò che accade nel settore denunciandone irregolarità e ingiustizie. Come egli stesso afferma in un’intervista, non aveva alcuna intenzione di portare a compimento un atto di accusa, né di umiliare i propri colleghi di lavoro o di esporli a un licenziamento. Tenta di recuperare invece quell’orgoglio tradizionale (coscienza di classe?, oggi atomizzata) del proletariato francese, come in tutta Europa nella sua condizione di estrema precarietà, riscattarne la dignità, senza rinunciare a scrivere nient’altro che la verità sul tempo in fabbrica, spogliandolo con le parole, sul corpo a corpo con le macchine. Ci accompagna dentro lo spazio della fabbrica e nel turno degli operai senza compatimenti, cercando di restituire quanto di comune esiste tra la loro condizione e quella degli altri lavoratori, dell’uomo.
La mia risata non dura molto/ spingiamo animali morti/…/ Tutti in fin dei conti non fanno altro che trascinare le proprie/ carcasse
Questo raccontare non può fare a meno di confrontarsi e schiantarsi (in un dialogo aperto) sulle esperienze e le narrazioni del secolo scorso, allorquando i processi di produzione iniziarono a subire le grandi trasformazioni che conosciamo fino al trionfo assoluto del capitalismo nel lavoro eterodiretto e alle quali tanti scrittori hanno cercato di dare voce partorendo autentici capolavori. Lo stesso Ponthus nomina Thierry Metz (1956-1997) e il suo Le Journal d’un manœuvre (Gallimard, 1990) pure lui per un periodo impiegato in un mattatoio; tra molti, ricorda l’operaio e scrittore Tommaso di Ciaula (1941-2021) e il suo romanzo-diario Tuta Blu (Feltrinelli, 1978), come anche Volponi che a quest’ultimo scrive la prefazione.
Questo libro/ che è di Krystel e a lei deve tutto/ è fraternamente dedicato/ ai proletari di tutti i paesi/ agli illetterati e agli sdentati/ con i quali ho tanto/ imparato riso sofferto e lavorato/ a Charles Trenet/ senza le cui canzoni/ non avrei resistito/ a M.G.G./ e / a mia madre.
L’opera di Ponthus è in fondo tutta in questa dedica iniziale: l’amore come principio di questo trasferimento e quindi di questa esperienza che lo scrittore considera, nonostante tutto, una delle più belle della sua vita; impara a conoscere se stesso e stringe legami con persone che non avrebbe mai incontrato altrimenti. E poi il suo amato cantautore Trenet, “il grande Charles senza il quale saremmo tutti contabili”, presente in tutto il testo pieno di sue citazioni e, in generale, di rimandi a opere sia letterarie (Apollinaire, Louis Aragon, Cendrars, Beckett) interiorizzate anche grazie alla sua formazione, che musicali (Brel, Brassens, Léo Ferré, Barbara a Johnny Hallyday, Vanessa Paradis e Carla Bruni); aiutano Ponthus-operaio a resistere giorno per giorno, movimento per movimento alla catena. Sono fughe mentali. Ed è proprio questo che cerca di far comprendere alla madre in una lettera:
Mamma/ So che in ogni momento della tua vita ti preoccupi per/ me/ E questo ti fa venire il mal di stomaco e influisce sulla tua/ salute…Forse pensi che sia uno spreco finire in fabbrica/ Francamente non credo anzi il contrario/ Quello che magari non sai è che è grazie a questi studi che/ resisto e scrivo… Questa è solo una fase/ È qui/ Bisogna viverla con determinazione e coraggio/ E preferisco che tu sappia della mia vita quotidiana piuttosto/ che saperti nell’immaginazione del dolore
In fabbrica non c’è tempo per parlare e le conversazioni si contraggono in uno scambio di opinioni sul turno di lavoro, in una serie di battute volgari per rianimarsi – politicamente scorrette qualcuno osserverebbe – di chi vive nel disincanto e lontano da ogni dibattito intellettuale che sente non riguardarlo.
L’altro giorno in pausa sento un’operaia dire a un collega/ “Ti rendi conto oggi è così stressante che non ho nemmeno il/ tempo di cantare” / Penso che sia una delle frasi più belle più vere e più dure che/ siano mai state dette sulla condizione operaia
L’operaio ha bisogno di cantare come sappiamo facevano gli schiavi e oggi pensiamo facciano i braccianti nei campi di lavoro, ma se nel nostro immaginario collettivo quei canti possono farsi in coro, nella fabbrica non è possibile, per i rumori delle macchine che coprono le voci del compagno, per i ritmi della produzione, per il modo di occupare lo spazio.
La forma e la lingua scelte sono quelle del ritmo dei pensieri durante il lavoro; un pensiero che cerca di ritrovare la liberà opponendosi ai ritmi serrati e regolari della produzione, pur andando a capo nel testo come alla catena (à la ligne in lingua francese dispone di una polisemia che si perde nella traduzione italiana, dal momento che significa sia andare a capo mentre si scrive che mentre si lavora alla catena industriale). Ma ascoltiamo le sue parole tratte da un’intervista riportata su Napoli Monitor [“La fabbrica mangia il tempo, il corpo e la mente”. In ricordo di Joseph Ponthus – NapoliMONiTOR]: «[S]i è imposta la questione del ritmo letterario. Perché io volevo scrivere su questi quindici secondi di libertà. Se avessi scelto di adattarmi al ritmo regolare della fabbrica, un compito al minuto, allora avrei scritto in versi regolari, di tipo alessandrino. Ma il mio ritmo era diverso, poiché io lottavo contro la cadenza, con delle irregolarità, a volte cinque secondi, a volte dieci o quindici. Quindi potevo scrivere solo in versi liberi.
“Per una settimana sei formattato in una non-lingua, in modalità performativa: quante ore ti rimangono per sparare, stai zitto, spingi più forte… Non parli…Pensi solo a una cosa: il prossimo fine settimana… «È tutto molto difficile da spiegare. Cosa vuoi dire alla gente? Del sangue in piena faccia? I fegati che ti esplodono addosso? Le tue otto ore a spazzare sterco di vacca? In fabbrica sei in purgatorio. Lavori con la morte. Si sente la morte. Partecipi a quello. Sei un boia a modo tuo, ma vuoi credere di non esserlo. Immagina: settecento teste di vacca al giorno, mille quattrocento occhi di vacche agonizzanti. E dici a te stesso: i colleghi resistono da quarant’anni, perché io no? Una cosa è certa: musi tagliati, mammelle affettate, queste cose non si possono raccontare nella lingua dei vivi, perché nessuno può capire. La lingua si ferma. Questa vita quotidiana passa attraverso gli occhi, le espressioni facciali del lavoratore, una mano che batte sulla spalla, ma non attraverso la voce. C’è solo la scrittura che può farlo”.
Una punteggiatura non c’è e non può esserci né tantomeno un punto finale, come scrive negli ultimi versi:
C’è che non sarà mai/ Anche se trovo un lavoro vero/ Ammesso che la fabbrica sia uno falso/ Cosa di cui dubito/ C’è che non ci sarà mai / Un/ Punto finale/ Alla linea
Non senza imbarazzo, superato con ironia e una certa lieve gioiosità che attraversa tutta l’opera, in particolar modo la prima parte, paragona gli operai alla generazione della Grande Guerra o a quella dei minatori di cui riporta racconti epici. Nella seconda parte i toni si fanno più cupi e a prevalere sono le scene di sangue e violenza del nuovo lavoro nel mattatoio, i dolori muscolari, le dita mozzate dagli incidenti, una profonda sofferenza fisica tanto che anche la scrittura diventa uno sforzo immane per il quale è in dubbio se sacrificare quel poco tempo che resta fuori dalla fabbrica:
E tutti i testi che non ho scritto/ Eppure scritti mille volte nella testa sulle linee di produzione/…/ Un testo/ Sono due ore/ Due ore rubate al riposo al mangiare alla doccia e alla/ passeggiata del cane
Ricorda quanto scrive Emanuel Carnevali: “I giorni in cui non ero preso dal lavoro, ero preso dalla fame. Trascinavo questo mio corpo da un ristorante all’altro, non come cliente, ma come servitore… A volte erano le poesie che mi consumavano i pensieri, muovendosi come un esercito di formiche nel mio cervello oppure divorandomi come tanti vermi. Perché questa preoccupazione per le parole, pensavo, se non c’è nessuno che le ascolti?” (Il primo dio).
Ponthus muore giovane, ci ha lasciati l’anno scorso a causa di un tumore. Ha il grande merito di essere riuscito a trovare una forma per esprimere il disagio della condizione di operai e precari oggi, in un’epoca di progressivo restringimento delle libertà personali e sociali; egli parte dal suo io, dalla sua esperienza, e se ne distacca per parlare a molti, all’umanità, attraverso la letteratura. Per fare ciò sembra necessario prendere le distanze dal dolore, dargli una forma: «Il poeta è un fingitore. / Finge così completamente /che arriva a fingere che è dolore / il dolore che davvero sente» (Fernando Pessoa, Il poeta è un fingitore. Duecento citazioni scelte da Antonio Tabucchi, Milano, Feltrinelli, 1988).
A cura di Maria Teresa Rovitto