Raúl Zurita, INRI : La salvezza del Cile attraverso la poesia (A cura di Annachiara Atzei)

INRI, secondo i Vangeli, è l’epigrafe posta sulla croce di Gesù. In quell’acronimo c’è il motivo della condanna, ma soprattutto, la presa d’atto di una morte violenta e il riconoscimento di un uomo che perde la vita. Raúl Zurita intitola così la sua antologia poetica, utilizzando un simbolo dalla forza dirompente che è sia mistero che rivelazione. Tutto il libro si regge su una ferita originaria ed è come se da questo squarcio mai ricucito nascesse un amore nuovo e più forte che riguarda tutti, non ultimo, il lettore.
Quando, nel settembre del 1973, il governo democratico di Salvador Allende cadde sotto il colpo di Stato del generale Augusto Pinochet, Zurita era un giovane studente di ventitré anni, artista, militante e già padre. Insieme a molti di coloro che sarebbero stati destinati a scomparire senza lasciar traccia di sé poiché considerati oppositori del regime, venne d’improvviso prelevato dalle forze golpiste, rinchiuso e torturato. Questa dolorosa vicenda personale – e più ancora collettiva – di perdita della dignità umana per mano di un potere politico autoimposto che privò del nome e del volto migliaia di cileni, ha influenzato la sua produzione letteraria esplodendo in una raccolta immaginifica e ricca di pathos.
Qui troviamo morte e visione, amore e trasfigurazione, vita e sogno così come in tanta letteratura sudamericana a partire da Borges fino a Cortàzar e Bolaño: laddove il mondo appare circoscritto in un perimetro troppo ristretto e soffocante, la scrittura diventa un moltiplicatore del reale, talvolta rassicurante, altre volte ancor più terribile. I componimenti di Zurita si sviluppano in una doppia dimensione, quella degli elementi naturali del paesaggio e quella della memoria. La cordigliera, il mare e il deserto non sono solo uno sfondo, ma sono gli stessi desaparecidos e chi li ha perduti, il legame affettivo interrotto senza preavviso e poi ritrovato. Sono il Cile che cerca redenzione.
Il drammatico evento dei voli della morte viene rievocato per essere riscritto in una nuova forma: “Sorprendenti pasture piovono dal cielo. Sorprendenti pasture sul/ mare. Sotto l’oceano, sopra le insolite nubi di un giorno chiaro./ Sorprendenti pasture piovono sul mare. C’è stato un amore che/ piove, c’è stato un giorno chiaro che ora piove sul mare”: i corpi che cadono sono cibo per i pesci e i pesci sono tombe. Anche i fiocchi di neve rosa sulle montagne si fanno corpo scagliato così come l’immagine straniante di una nave nel deserto di Atacama rappresenta un carico di morti che fa gridare le pietre. Dapprima, viene descritto un movimento discendente, poi il paesaggio rifiorisce e tutto sembra innalzarsi verso il cielo. Il cielo stesso si solleva: “Nel cielo fluttuano i frangenti./ Tutti i corpi scagliati sopra le cordigliere, fiumi e mari del/ Cile fluttuano nel vento. Sono stati restituiti al cielo e fluttuano./ Onde resuscitate che
tornano”. Dalle orbite vuote degli occhi sbocciano gerani, campi di girasole, magnolie e ortensie azzurre e la natura sembra tornare alla vita.

R. Zurita

Il poeta recupera un passato amaro per dargli finalmente un’identità: Bruno, Viviana e lo stesso Zurita sono solo alcuni dei nomi che diventano lo strumento per richiamare all’appello chi manca: “Per sempre?/ Si ricorda allora tutta una nevicata di nomi,/ Paulina, Mireya, Isabel: avete visto Susana?/ Avete visto Bruno?”. Infine, all’apice di quell’ascesa, l’amore occupa tutto lo spazio: “E ti amerò di nuovo e ti dirò vieni. E tu mi amerai di nuovo e mi/ dirai vieni. E aprendosi il cielo ci dirà vieni come le lave rosse che/ coprono i monti le nostre carni copriranno di nuovo le ossa innevate/ di tutte le Ande e ti amerò di nuovo e sarà vieni”.
La ripetizione di immagini, parole e versi fa risuonare l’intero testo come un canone a più voci che si sovrappongono una dopo l’altra nell’unica melodia cantata dalla natura e dai corpi, dal paesaggio e dagli uomini, da un intero paese che è allo stesso tempo sepolcro e resurrezione.
Nell’epilogo, al centro del vortice emotivo nel quale chi legge non può che sentirsi risucchiato, l’autore si immerge esplicitamente nella dimensione onirica, quasi come tentasse un estremo riparo: “Un sogno magari sognò che c’erano dei fiori, che c’erano dei/ frangenti, che c’era un oceano che li sollevava in salvo dalle loro tombe nei/ paesaggi”. Poi, il definitivo disinganno che non toglie intensità, anzi porta all’estremo l’operazione letteraria di riscatto del poeta: “Sono già stati detti i fiori inesistenti. / È già stato detto il mattino inesistente”.
Roberto Bolaño che, come Zurita, visse sulla propria pelle il dramma di vedere il suo paese oltraggiato, scrive ne I cani romantici: “La maggior virtù della mia/traditrice specie/ È il coraggio, forse l’unica virtù reale, tangibile fino alle/ lacrime/ E gli addii”. Il coraggio, come quello di Raúl Zurita, di trovare l’amore nell’orrore, di salvare, con la poesia, la Storia dall’oblio.

Cinque poesie da INRI (Edicola Ediciones, 2021)

Sorprendenti pasture piovono dal cielo. Sorprendenti pasture sul
mare. Sotto l’oceano, sopra le insolite nubi di un giorno chiaro.
Sorprendenti pasture piovono sul mare. C’è stato un amore che
piove, c’è stato un giorno chiaro che ora piove sul mare.

Sono ombre, pasture di carne per pesci. Piove un giorno chiaro,
un amore che non si è potuto dire. L’amore, ah sì l’amore dal
cielo piovono pasture paurose sull’ombra dei pesci del mare.

Cadono giorni chiari. Strane pasture incollate a giorni chiari,
ad amori che non hanno potuto dirgli.

Il mare, si dice il mare. Si dice di pasture di carne che piovono e
di giorni chiari incollati a queste, si dice di amori incompiuti,
di giorni chiari e incompiuti che piovono pe i pesci del mare.

*
Ti palpo, ti tocco, e i polpastrelli delle mie dita, abituati sempre a
seguire i tuoi, nell’oscurità sentono che scendiamo. Hanno tagliato
tutti i ponti e le cordigliere affondano, il Pacifico affonda, e i loro
resti cadono dinanzi a noi come cadono i resti del nostro cuore.
Davanti alla morte qualcuno ci ha parlato della resurrezione.
Vuol dire allora che vedranno ancora i tuoi occhi svuotati? che
i miei polpastrelli palperanno ancora i tuoi? Nell’oscurità
le mie dita toccano le tue dita e scendono come sono discesi
ora le cime, il mare, come discende ora il nostro amore
morto, i nostri sguardi morti, come queste parole morte. Come
un campo di margherite che si piegano ti palpo, ti tocco, e
nell’oscurità le mie mani cercano la pelle di neve con cui
magari rivivremo. Ma no, discese dalle cime delle Ande
rimangono solo le tracce di queste parole, di queste pagine
morte, di un campo lungo e morto di fiori dove, con noi sotto
abbracciati ancora, affondano come sudari bianchi le cordigliere.

*

Un volto è il tuo volto un deserto fiorito. I fiori recisi si amano.

Un volto che si ama è un fiore nel deserto come il deserto è
una notte per i fiori. Gli hanno svuotato le orbite, lo sapevi?
gli hanno reciso gli occhi, I fiori recisi gemono e i nostri volti
morti fioriscono nel deserto perché un volto è un volto nella
brevità delle cose così come i fiori sono un deserto nella
brevità della morte. Quando sono i fiori della notte ed è la notte
l’amore accecato che ci ama.

Un deserto è allora un deserto un sogno fiorito e il tuo volto
cieco e morto sale coprendosi di roseti perché i fiori ci amano
e sono notti i fiori del nostro amore cieco che si issa sui cieli
recisi.

E ci amano i fiori, sì Zurita ci amano, e recisi crescono dai tuoi
occhi ciechi per dirci l’amore che mai le nostre patrie ci hanno
detto, quando dalla tua notte svuotata è cresciuto il cielo e tutto il
cielo è stato il tuo volto pieno di fiori che saliva.

Perché i fiori ci amano. Perché ci amano i fiori recisi. Perché i
fiori morti, Zurita, ci amano.

*

Nel cielo fluttuano i frangenti. L’oceano Pacifico, le spiagge.
Da sotto somigliano a venti, ma sono i frangenti del mare a
fluttuare sul cielo. Viviana ascolta ascendere sterminati
oceani e sale anche lei. Anche suo figlio sale con le nevicate
rosa delle cordigliere. Il sangue neve rosa delle cordigliere e le
onde color sangue dei mari restituiti fluttuano sospesi sopra il
cielo. Fluttuano anche i nevai, il mare, i monti.

Tutti i corpi scagliati sopra le cordigliere, fiumi e mari del
Cile che fluttuano nel vento. Sono stati restituiti al cielo e fluttuano.

Onde resuscitate che tornano, marosi che tornano e nuotano
distendendosi sul vento. Monti e monti salgono fluttuando,
cordigliere e cordigliere di corpi ritornano distese come
lave color sangue di tutti i vulcani, di tutte le cime e i nevai.
Nel cielo fluttuano frangenti della resurrezione e sono il mare.

Un mare. Dicono un nuovo mare. Oh sì dicono un nuovo cielo.

*

E ti amerò di nuovo. E dalle nostre pupille morte si apriranno i
cieli e mentre si aprono i cieli ci mostreranno da sotto le
cordigliere e vedrai un paese di vulcani ascendere come un
mare fino ai crateri dei tuoi occhi. E mi guarderai, e mi
guarderai di nuovo, e guardandomi i tuoi occhi vedranno la
lava dei vulcani e salendo i vulcani ti toccheranno le pupille e i
crateri delle mie pupille toccheranno di nuovo le tue. E le carni
che siamo stati ci copriranno di nuovo come la lava viva copre i
monti perché si è dischiuso un cammino nella solitudini ed è
stato vieni.

E ti amerò di nuovo.

E ti amerò di nuovo e ti dirò vieni. E tu mi amerai di nuovo e mi
dirai vieni. E aprendosi il cielo ci dirà vieni come le lave rosse che
coprono i monti le nostre carni copriranno di nuovo le ossa innevate
di tutte le Ande e ti amerò di nuovo e sarà vieni.


A cura di Annachiara Atzei

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