Il racconto che proponiamo oggi appartiene alla raccolta Storie di un’altra storia (Calibano Ed.), di Mauro Germani.
Si intitola La Grande Macchina, ma potremmo anche chiamarla ‘la grande ossessione’, perché , in questo caso, la cura e la dedizione non sono che l’altra faccia di una rappresentazione mentale persistente, ai limiti della fisima.

La Grande Macchina
Fu solo la Grande Macchina.
I vapori s’alzavano fra il movimento perfetto delle ruote e quello degli ingranaggi. L’anima di ferro urlava, ripetendosi, ed era questo l’amore: come dolce consolazione, o sonno infantile.
Solo, finalmente – per sempre – con la mia tuta, la mia divisa, l’uniforme speciale della mia opera segreta. Scendevo, salivo, scendevo. Chi avrebbe potuto vedermi? Le mie mani giocavano, veloci e nere, vibravano come ali. Lo spazio cancellava il tempo, lì, tra quegli ingranaggi mai fermi che crescevano sotto i miei occhi, che si sviluppavano con la loro vita misteriosa. Giovani. Perfetti. Sincronizzati con i miei pensieri. Fedeli alle mie prove.
Fu solo la Grande Macchina il mio prestigio. Scendevo, salivo, scendevo. La voce di lei – due o tre sillabe – mi prendeva il corpo, ladra di gesti, e mi seduceva. Il suo fiato, poi, mi addormentava. Inarrestabile. Per l’eternità.
Ogni giorno scendevo per la manutenzione ordinaria, con la torcia elettrica, come un serpente. Penetravo le strette gallerie, i tortuosi corridoi, le anguste passerelle che avevo costruito.
Le piaceva. Poi risalivo, soddisfatto delle mie accurate ispezioni, e procedevo con la perlustrazione della parte soprastante, attento a ogni suo gemito, a ogni suo movimento.
Non c’era nessuna finestrella, nessun mondo al di là delle sfere oliate, dei tubi di rame, delle cinghie elastiche. Giocavano con me i cacciaviti di precisione, i morsetti taglia-tubi, le pinze, i tronchesini, i martelli, le tenaglie. Saltavano fra le mie dita, magicamente. E lei, con i suoi ingranaggi, mi ringraziava: pareva riconoscente e più bella, sì, più grande, interminabile, devota.
Fu solo La Grande Macchina, la mia vita.
All’inizio il progetto, i disegni – e l’ambizione, il tormento, le notti insonni. Le idee erano lampi fra quattro mura, geometrie di suoni e di colori. Elaboravo, calcolavo, creavo. Chi avrebbe potuto fermarmi? Chi avrebbe osato? Non avevo più tempo. Dovevo studiare, trovare nuove soluzioni, inventare.
Ricordo che al primo movimento, già perduto e innamorato piansi. La Grande Macchina pulsava, rispondeva ai miei comandi, era viva. E lontano, chissà dove, il mondo sempre più incomprensibile, le sue luci stordenti, le sue stagioni inutili, i suoi girotondi crudeli, la gente…
Io, invece, scendevo, salivo, scendevo. Mi perdevo in quei meccanismi, in quei congegni straordinari. L’affanno e il sudore erano ancora lontani – la giovinezza correva nel sangue come una droga – ancora fantasmi. Tutto funzionava, i ritmi precisi, ben calcolati. Gli orologi puntuali. Lei la Grande Macchina, muoveva i suoi stantuffi ubbidiente. Non c’era alcuno scopo, alcuna produzione. Il movimento per il movimento. L’energia per l’energia.
A volte qualche inconveniente: una puleggia fuori posto, una guarnizione da sostituire, un tubo da saldare, una ruota dentata da sistemare. Allora, come sempre, io scendevo, salivo, scendevo. E con me, silenziosi, gli anni. Fino a oggi.
Ancora – nonostante l’età – mi addentro con la mia vecchia tuta, con la mia uniforme ormai logora, in quei meandri e in quei labirinti. Ispeziono, sistemo, lubrifico, aggiusto, puntello. Le mie mani sono abbastanza agili, ma per quanto?
Tra poco, lo so, me ne dovrò andare. Forse mi troveranno immobile in mezzo a quegli ingranaggi, lo sguardo ormai spento per sempre. E lei? Che ne sarà di lei, la mia dolce Grande Macchina? Chi penserà a tenerla in vita?
Oh, avessi avuto un figlio!
Di Mauro Germani