“Tutto ciò che abbia anche lontanamente a che fare con la cultura viene guardato con sospetto e messo in dubbio finché non è estinto. Chi vuole estinguere, uccidere, è oggi all’opera. Abbiamo a che fare con gente che estingue e uccide, dovunque costoro portano a termine la loro attività assassina. Gli agenti dell’estinzione e dell’uccisione uccidono le città e le estinguono, e uccidono il paesaggio e lo estinguono. Stanno seduti sui loro grossi culi nelle migliaia e centinaia di migliaia di uffici in tutti gli angoli dello Stato e non hanno in testa null’altro se non l’estinzione e l’uccisione”.
Un filo sottile lega a sé l’intera opera di Thomas Bernhard.
Da un lato la narrazione che procede per ellissi, come in Ungenach e Amras (due autentici capolavori, passati ancora inosservati), e dall’altra il monologo fluviale, monomaniacale nella sua perturbante “coazione a ripetere”, esondante come un fiume che straripa travolgendo tutto quello che incontra lungo il suo tragitto: Correzione, Estinzione, la seconda parte di Perturbamento sopra tutti.
È necessario, si chiede il Professore Franz Josef Murau rivolgendosi al suo allievo Gambetti, che il mondo più bello di tutti venisse violato, per ucciderlo ed estinguerlo, proprio in questo secolo? J’accuse totale, Estinzione, ultimo libro nella prolifica produzione dell’autore, è opera mondo che contiene infinti mondi che si schiudono come biglie all’interno di una narrazione senza fine, mostruosa, narrata in prima persona da Murau, erudito filosofo che consiglia di leggere attentamente libri come Amras di Thomas Bernhard stesso e Il processo di Franz Kafka (il primo, stando alle sue stesse parole, è il suo prediletto dell’intero corpus). E da quei libri, quasi usati come pretesti, si scaglia contro il canone della letteratura tedesca, da Thomas Mann, a Robert Musil, a Goethe… perché accusata di essere fondamentalmente provinciale, piccolo borghese; così come gli esponenti accademici, non sono altro che residui di un mondo in rovina: “è improbabile che alla fine del secolo questo mondo, così come lo conosciamo oggi e come ogni giorno dobbiamo digerirlo, esista ancora, ne dubito seriamente, tutti i sintomi dicono che il mondo, in brevissimo tempo, cambierà al punto da non essere più riconoscibile, sarà un mondo cambiato dalle fondamenta ed effettivamente distrutto dalle fondamenta”. Come Michel Houellebecq con il passare degli anni, anche Bernhard è stato investito del ruolo di profeta della nostra epoca: leggendo queste parole viene naturale (ri)leggere i principali fatti della nostra storia in una chiave molto simile a quella del professor Murau, o del principe Saurau (protagonista di uno dei monologhi più incisivi dell’opera bernhardiana, in Perturbamento).
Un po’ Dostoevskij nelle Memorie del sottosuolo – oggi verrebbe da dire, a partire da quel libro lì, è stato inaugurato un canone di narrazioni crepuscolari e incendiarie in forme di monologhi; quando la narrazione convenzionalmente intesa viene detonata dall’interno – e un po’ Marcel Proust nella rievocazione del tempo perduto nella vita in provincia austriaca, a Wolfsegg, dove ogni estraneo è sempre accolto con odio, avversione; mentre Murau combatte contro i demoni del suo passato, che affollano il presente come una persecuzione: la famiglia (il padre, la madre, il fratello e due sorelle: i primi tre appena scomparsi per causa di un incidente in auto; e infatti, sarà proprio il telegramma che lo annuncia a essere il motore della memoria e della scrittura di Murau…), e dove tutto sembra convergere nel grande evento finale che racchiude tutte le storie contenute tra i cunicoli della narrazione, dispersi tra gli strati da sollevare gradualmente per confondersi tra i tesori e le miserie della condizione umana: il funerale, occasione per prendere una decisione definitiva sulla proprietà ereditata. Fuggire a Roma non è una soluzione univoca, infatti gli stessi pensieri ossessivi continueranno a perseguitarlo, così come i personaggi che entrano ed escono dalla scena della sua mente: Spadolini (l’arcivescovo e amante della madre) su tutti.
Nel rumore assordante delle nostre città, che ci schiaccia fino a soffocare, cosa è rimasto della vita dello spirito? Tutti sembrano essersi fermati agli anni della scuola, perché obbligatori o funzionali ad entrare in una certa professione, ma successivamente cosa rimane?: “Mentre io ho sempre fatto di tutto per migliorarmi, per accogliere e assimilare ogni cosa che ci fosse da accogliere e da assimilare, loro non avevano compiuto il minimo sforzo in questa direzione. Così come la maggioranza dei laureati crede, con la conclusione degli studi universitari, di aver fatto quanto basta per la sua esistenza, e di non doversi più adoperare per ampliare le sue conoscenze e il suo sapere e per sviluppare il suo carattere”.
Tutto sembra rimanere fermo, come lo spirito non conosce progressione, così la storia e le condizioni sociali, inchiodano Wolfsegg e l’Austria intera ad un immobilismo fatale: imperniata di nazionalsocialismo (i genitori infatti avevano offerto protezione nella villa dei bambini ad alcuni ufficiali nazisti per salvarli…), o come il ruolo della Chiesa Cattolica, colpevole di ipocrisia e di condizionare la vita degli individui a tal punto da impedire loro di emanciparsi in virtù del proprio pensiero, cosa che invece, rivendica per se stesso Murau, come quando contempla distaccato la cerimonia funebre nelle pagine conclusive del libro: “Ogni dramma è una menzogna, pensai. E questo genere di dramma è la menzogna più grande. Un funerale come questo è il dramma più grandioso che si possa immaginare, pensai”.
Ogni frase è una frustata sulla schiena, uno schiaffo in faccia “contro tutto”, che inchioda la condizione umana nella sua fase storicamente più critica, giunta ad un punto limite, in cui come viandanti persi nella nebbia (ciechi) vaghiamo senza meta, ma convinti di essere dalla parte giusta.
Estinzione suona, sempre di più, come la rivendicazione più autentica dell’indipendenza della nostra mente.
Così come un altro capolavoro citato nel libro da Bernhard stesso, Amras, è un urlo silenzioso, nella quiete di una torre dimenticata, che assume le sembianze di una rivolta metafisica che si scaglia contro la finitudine in cui siamo calati senza possibilità di scelta dal principio: “Siamo stati, già molto presto, respinti da tutto, in cerca di riparo, tutta la vita sempre solo rinchiusi nel nostro ilozoismo”. Che cosa resta della logica, e quindi della razionalità? O della filosofia occidentale, quando la paura incombe di fronte all’oblio della natura, alla sua legge implacabile, e alla malattia (la cui natura, appunto, “è oscura quanto la natura della vita”): Amras, come l’intera opera di Bernhard, è un misen en abym esasperato, nemesi del romanzo, punitrice di tutto ciò che eccede nella chiacchiera narrativa (“la cornacchia che mi turba con la sua attenzione, la cornacchia congelata che – con gesto fulmineo – lancio in aria con la punta del mio bastone”).
Nell’isolamento forzato, dove chi eccede nello stare “solo fino all’eccesso” è destinato ad andare a picco per forza (come scrive nel secondo pannello della sua monumentale autobiografia, La cantina, ristampata recentemente da Adelphi in unico volume), i due fratelli K. e Walter, il primo studioso di scienze naturali, l’altro poeta e amante della musica, sono rinchiusi e appartati nella grotta ubicata in una frazione a sud-est di Innsbruck; eredi di una calamità che pesa come un’incudine sulla storia e la genealogia della loro famiglia: il suicidio di gruppo dei suoi componenti a cui solo loro sono scampati (possibile eco analoga alla decadenza di un’altra storica famiglia ritratta da Thomas Mann ne I Buddenbrook?).
K. si muove come in una selva oscura, dove solo al suo interno è possibile rischiarare la profondità dei suoi pensieri che, con progressivo acume, vanno assottigliandosi in garbugli sempre più frammentari, perché in fondo questo siamo noi tutti per Bernhard, così come la realtà in cui siamo immersi: “la consapevolezza che tu non sei che frammenti, che i periodi lunghi o brevi e anche quelli lunghissimi non sono che frammenti… che la durata delle città e dei paesi non è altro che frammenti”.
Walter invece, animato dalla “forza della fantasia”, nel suo lucido delirio espresso dalle pagine scritte e ritrovate dal fratello, è il testimone di una tragedia che rincorre se stessa in un circolo perpetuo (l’immagine della tenda del circo in fiamme, il leopardo simbolo della condizione umana picchiato dalla frusta del direttore, il funambolo che rinuncia al quinto salto perché gli riuscirebbe imperfetto…), e come in un labirinto senza via d’uscita, la sua testa scassata sembra suggellare il periodo trascorso con K. nella torre di Amras, sotto la finestra: implacabilmente.
L’impronta del romanticismo traspare nell’elaborazione formale utilizzata da Bernhard nel racconto, scegliendo di unire diversi espedienti come lettere, monologhi, aforismi, in una frammentarietà che domina sovrana: espressione dell’impossibilità di simbiosi estatica con una natura che appare ostile, estranea, in cui tutto appare inattuabile per delimitare un’oggettività destinata a rimanere sempre incompiuta.
Il flusso del frammento esonda nella soggettività irriducibile al linguaggio, così la realtà stessa si nasconde negli interstizi della verità, e nella logica sono proprio i nessi a non condurre da nessuna parte: anzi, al Nulla claustrofobico simboleggiato dalla torre di Amras. Quello che leggiamo in queste pagine è pensiero scisso che vede se stesso da fuori, insensibile come la vita quando domina soltanto il vuoto attorno, soltanto il vuoto…
Se non ci è concesso in questo passaggio di dominare l’inquietudine, gli eventi si caricheranno di significati per noi imperscrutabili, e l’estetica della dispersione sarà l’unico dispositivo con cui regolare il nostro rapporto con il mondo ridotto a brandelli, perché “l’interezza non esiste”.
“È evidente – disse Moro – che la nostra facoltà di comprendere si è acuita. Il nostro intelletto è critico. La nostra testa è il prodotto logico di una tautologia… perché tutto mira all’annientamento”. Come scriveva Carmelo Bene, citando Pier Paolo Pasolini, “un autore fa sempre la stessa cosa […]. Ogni sua opera non è un tassello da considerarsi, non è membro del suo artefice squartato. No, l’autore è al suo completo in tutte le sue opere”. Thomas Bernhard è la dimostrazione evidente di questo fatto: un autore scrive sempre lo stesso libro e, come in questo caso (grazie alla recente ripubblicazione da parte di Adelphi di Ungenach: Una liquidazione), abbiamo una ulteriore conferma della nostra tesi: per cui tutti i suoi libri sembrano condurre ad un’unica soluzione: l’estinzione (o una liquidazione, appunto).
Ungenach è il nome della proprietà sconfinata situata nell’Austria Superiore calata come dall’alto in eredità ai fratelli Zoiss: fabbricati rurali, tenute abbandonate, cave, boschi ecc., tutto quello che spinge i due fratelli, anche qui, Karl e Robert, alla fuga: “Se valutiamo tutti i fenomeni oggi esistenti, dobbiamo dire che mai è stato tutto così grottesco, anche se una dopo l’altra tutte le epoche sono sempre state grottesche… indubbiamente”.
Narrazione che procede per ellissi ed esclusione, i cui frammenti di sentenze, riflessioni filosofiche e atti notarili e testamentari, ci restituiscono intatta la trasparenza di un libro perfetto, come un cristallo. Quando il mondo sembra aver esaurito il suo senso, che farsene di una proprietà che non si vuole, e che non si è capaci di gestire, come un complicato meccanismo di cui si ignorano le cause. Tanto vale sbarazzarsene, mollare tutto a un “teologo della natura”, o a qualche carcerato, ai pazzi ricoverati in manicomio. La mente è un labirinto, come la prosa di Bernhard, e si perde tra i resti delle rovine dove tutto converge irreversibilmente: “Tutto è incomprensione, perché non c’è più niente da rendere comprensibile là dove, come è naturale, tutto è in via di dissoluzione, e per questo io non riesco più a dormire”.
Se come scrive in Un bambino, ultimo volume della sua autobiografia (tra le opere più narrative dell’intero corpus, dopo Il soccombente), “i più intelligenti sono continuamente minacciati dalla pazzia, diceva mio nonno”, l’esito estremo della sua prosa radicale, e della sua intelligenza di artista e scrittore (e dunque, folle…) viene raggiunto in un libro divenuto di difficile reperibilità e ormai autentico feticcio per collezionisti, nella sua storica edizione Einaudi: il libro in questione è Correzione.
«Tutta l’epoca in cui viviamo oggi in verità è sempre stata contro il pensiero e si limita a fingere di pensare, la tendenza oggi è contro il pensiero ed è per la finzione, come in genere tutta quest’epoca in cui viviamo è finta, tutto è finto, nulla è reale». Che cosa si prova ad abitare la soglia estrema del pensiero? L’abisso filosofico del labirinto della mente, come la soffitta di Holler – luogo al confine della Correzione radicale, rimandata all’infinito, da Roithamer, l’architetto protagonista –, scelta per meditare e delineare il progetto finale, l’atto creativo che condensa tutte le possibili costruzioni concepibili: il cono, l’abitazione perfetta per la sorella amata da Roithamer (l’unica…). E allora il cono diviene centro geometrico del mondo, superficie in cui si incontra la linea di rovesciamento con il punto temporale determinato, e tutt’intorno: la Radura immensa. Correzione di Thomas Bernhard è opera immane, così come immane è il tentativo di edificare un’architettura del pensiero, un’opera d’arte della vita, in cui ognuno ha la possibilità di arrivarci, ma dove per farlo è necessaria una disposizione spirituale che conduca a una forma che può prendere il nome di ascesa mistica, per collocarsi contro tutto e soltanto dopo rinascere dalle fondamenta scaturite da un annientamento totale: così come gli appunti, le riscritture compulsive (le monomanie, le paranoie, i deliri…), conducono Roithamer all’atto correttivo estremo, isolato nel «perfetto centro geometrico» del Kobernausserwald.
Per chiunque fosse interessato alla persona, oltre allo scrittore, l’anno scorso è uscita per i tipi dei Portatori d’acqua, l’interessante Una conversazione notturna, a cura di Peter Hamm. Intervista alticcia, perché praticamente estorta a un Bernhard sulla soglia della lucidità per via delle ingenti quantità di vino tracannato con i suoi interlocutori in una locanda vicino alla sua casa, è anche strumento ideale per ripercorrere i temi, le ossessioni che animano questo autore, come alla domanda se abbia mai sentito la necessità di scrivere in prosa si possono leggere risposte come questa: “Non la chiamerei necessità. Volevo diventare famoso, da sempre, e il mezzo mi era del tutto indifferente”. Così come in tutta la discussione appare con forza la volontà di smarcarsi dai suoi personaggi, descritti sempre sull’orlo del precipizio, in una sorta di riflesso condizionato che porterebbe i suoi lettori, erroneamente, a pensare che volesse farla finita con la vita, prima o poi. Attraversata da una sarcastica e pungente ironia (come in Kafka), nascosta tra le spirali delle radure così attentamente descritte, il viaggio nell’opera di Bernhard può passare anche per una bevuta, o più semplicemente da un pasto frugale consumato in osteria.
A cura di Omar Suboh
Una replica a “Quando scrivere non è una necessità: l’Estinzione di ogni cosa nell’opera di Thomas Bernhard ( a cura di Omar Suboh)”
Ritrovo in questo bellissimo scritto l’immagine del mio autore di riferimento e i motivi che me lo fanno privilegiare. Grazie!
"Mi piace""Mi piace"