La carne del mondo e Lo spettro del visibile
(Patrizia Sardisco, Cofine, 2021).

L’enigma della poesia è quello dell’esperienza stessa, colta nella sua scaturigine. Entrambe indefinibili ma entrambe passibili di uno scandaglio fenomenologico. Si tratta insomma di mettere in parentesi l’enigma e accontentarsi della infinita gamma delle sue manifestazioni.
Questa potrebbe essere una prima accezione della parola “spettro” che ricorre nel titolo di questa raccolta, ma che evoca anche l’altro significato del termine: il fantasma proteiforme e intrattabile che attraversa oggi più che mai tutto l’orizzonte del reale, minacciando nel contempo gli ordini complementari dell’immaginario e del simbolico (Lacan) della nostra civiltà. Il cosiddetto iconismo della poesia, la sua autoreferenzialità, possono insomma essere ripensate alla luce della figura del chiasma, inteso come reciprocità dell’agire e del patire, del vivente del vissuto, in quella fenomenologia della percezione sviluppata a suo tempo da Merleau-Ponty e messa a punto nell’ultima sua opera incompiuta, pubblicata postuma, che reca appunto il titolo “Il visibile e l’invisibile”. Queste considerazioni possono valere per la poesia in generale, come pratica sempre sospesa fra ispirazione e tecnica, e come “prolungata oscillazione fra suono e senso” (Valéry), ma in particolare valgono per quella di Sardisco dove la densità linguistica fa tutt’uno con la massa critica che appare come sospesa sull’orizzonte degli eventi di un buco nero del senso. Dove la concretezza materica dell’espressione si accompagna a una lucidità eidetica non comune, costituendo nel suo complesso una sorta di aforisma esteso di ciò che è stato ripetutamente chiamato “la sapienza del poeta” (Musil, Broch). Ciò a partire dalle sue numerose composizioni dialettali che costituiscono come il nucleo primigenio, magmatico, del suo rapportarsi al proprio mondo ambiente, e dell’urgenza po/etica che l’ha caratterizzata fin da bambina.
Di tutto ciò d’altronde, Sardisco dimostra di essere perfettamente consapevole, nelle varie occasioni in cui viene interpellata su questi temi, come per esempio in una intervista rilasciata a Grazia Calanna, dove alla domanda “Qual è il ricordo (o un aneddoto) legato alla tua prima poesia?” risponde: “So di aver scritto da sempre: pensieri, minuscole narrazioni, versicoli. Puntualmente strappati in pezzi minutissimi. L’ho fatto per anni, senza particolari rituali ma con una sorta di trepidazione bifronte, l’urgenza di scrivere, l’impazienza che presto ne sparisse ogni traccia: dopo avere osato attraversare un continente bianco, che la neve del silenzio tornasse a ricoprire una pace interrotta, l’aria lacerata, l’errore”. Una Stimmung che appare riassunta e trasfigurata proprio nella strofa iniziale de Lo spettro del visibile: “dal sogno della voce/ migrarono/ particole di luce/a campire la vacuità del bianco/lo spazio fantasmatico/di una impossibile nominazione”. (7) E poi alla domanda su quale fosse la lingua ideale della Poesia, risponde: “è quella che libera la parola dall’ombra lunga del significato e la trascina fuori, la espone, e la orienta alla luce da ogni lato, cercandone le facce o inventandone di nuove, sgrossando e lucidando, scorticando persino: amputando, se serve”.
È dunque intrinseca alla poesia di Sardisco l’esplorazione deliberata della reciprocità di percezione e interazione, sensazione e senso, umani o fors’anche animali, l’esplorazione dello spettro del visibile/dicibile ricondotto al suo sostrato comune in quella che ancora Merleau-Ponty, in una sorta di torsione animistica della fenomenologia Husserliana, chiama “la carne del mondo”, per significare che dalla comparsa della prima cellula vivente sulla terra, tutta la materia inerte, essendo divenuta oggetto di possibile sensazione si è fatta a sua volta sensibile, per quella reciprocità di percipiente e percepito che lo stesso filosofo chiama “chiasma”, facendone il fulcro del suo ultimo libro incompiuto.
Fra quest’ultima opera di Sardisco e la precedente Autism Spectrum, c’è una continuità evidente a partire dal titolo, sicché lo Spettro del visibile appare come una contrazione e un distillato di temi e forme che avevamo incontrato nell’opera precedente, che trattava però di una patologia ben nota dell’interazione umana e della connessa esperienza terapeutica cui l’autrice effettivamente si è dedicata nel corso della sua vita. Le due opere stanno comunque fra loro come due facce della stessa medaglia, dove la chiusura autistica al mondo costituisce come il negativo dell’urgenza poetica, del rischioso aprirsi al visibile e al dicibile, da parte di un io poetico che è in effetti già sempre “quel noi vociante che chiamiamo io” (20).
La continuità fra le due opere viene poi suffragata dal confronto dell’inizio della prima, che proietta in dimensione cosmica il disordine autistico: “così irriducibile/ riassumi l’eco/dell’afasia del cosmo/ che non ti sa/ ordinare” Con quello della seconda, dove subito appare il sogno, come crogiolo del disordine e della creatività dell’inconscio. Se il tema di Autism Spectrum è insomma la dedizione terapeutica dell’autrice, quello de Lo spettro del visibile è il grumo denso, problematico della sua vocazione poetica.
Perciò la tensione etica della prima raccolta, recede sullo sfondo nella seconda, lasciando il proscenio al vero e proprio agone poetico che vi si rappresenta.
Mentre al linguaggio medico e scientifico subentra quello eminentemente geometrico e matematico, come a voler mettere a tema il dialogismo intrinseco della poesia in generale fra il verbale e il numerico, non foss’altro che per il carattere metrico della sua testura. Il che implica anche il problema della natura originariamente ambigua del logos, che in greco significa infatti sia linguaggio che rapporto, e soltanto per questa comunione si fa pensiero. Sicché assistiamo in questa breve e densissima composizione di Sardisco a una sorta di percorso a ritroso rispetto a quello che ha caratterizzato lo sviluppo del pensiero occidentale, dall’ilozoismo degli eleatici alla svolta socratica dalla physis ai logoi. Nonché a una sorta di messa in parentesi del mondo sbiadito che ci si offre quotidianamente in un discorso usurato, per tornare allo stupore originario e al bolo fonosimbolico di “una lingua fossile” (12), di un’esperienza infantile o primigenia, dove creatività e auto-riflessività poetiche convergono nella reciprocità degli sguardi fra madre e figlia: “nel disegno infantile/gli occhi: gli occhi della madre/dove la fame è riverbero di palpebre/la mente appicca incendi/di un dolo illuminante” (14).
Cercheremo ora di dipanare alcune fila della fitta trama del testo, del suo spazio di ascisse e ordinate, in cui già Anna Maria Curci, a proposito della raccolta precedente, aveva visto profilarsi l’immagine perturbante dell’Odradek, che appare nel racconto Il cruccio del padre di famiglia di Kafka, a designare “un rocchetto di refe, un rocchetto piatto, a forma di stella” intessuto a treccia-traccia (come un filamento di DNA) ma i cui pezzi sono annodati alla rinfusa l’uno all’altro, rizomaticamente, in un groviglio di tipi e toni cromatici, e le cui apparizioni non sono prevedibili ma inevitabili.
Questo oggetto esprime perfettamente l’angoscia dell’homme moyen sensuel, del “Padre di Famiglia” di cui nel titolo del racconto, di fronte all’imprevedibilità e all’enigma sia del gesto autistico che di quello poetico.
Lo faremo alla luce, fra l’altro, alla luce di alcuni concetti-metafore di Merleau-Ponty: quelli del chiasma, della carne del mondo come riduzione sinestetica del visibile/dicibile, e del sogno inteso come soglia fra la reticenza autistica e l’esuberanza poetica. A partire dalla citata bellissima strofa iniziale dove lo spettro del visibile appare in tutta la sua feconda ambivalenza e lo spazio fantasmatico viene ricondotto al suo sostrato tattile gustativo che ospita l’ingorgo primigenio della lingua affamata ma disposta al rischio della nominazione previa una radicale messa in mora del mondo dato: “la sospensione del giudizio/una epochè del senno/…negli scoscendimenti della gola/il vuoto immisurato tra le tonde/dilata le onde della luce/a principio di mondi/e ogni nominazione dell’intorno/è l’audacia/di non gettare troppo in basso l’occhio” (8). Si assiste insomma fin dall’inizio a una “ristrutturazione percettiva” a chiasma, dove “nell’umor vitreo migrano gli stimoli/contro gradiente/per trasporto attivo” (9), e il vivente e il vissuto entrano in anelli di retroazione che tendono ad allargare lo spettro del visibile, le cui fasce di frequenza, “le unità di campo tendenzialmente rigide” depositate nelle grammatiche usitate, formano “un mare chiuso” in cui bisogna trovare il “valico vocalico”, che consenta di “dilagare in altri mondi” (9), di penetrare nelle dimensioni dell’infrarosso e dell’ultravioletto, dove sbocciano “fiori invisibili a occhio nudo” (20), dove la vista, il suono e il tatto trascorrono l’uno nell’altro, in quell’esperienza primigenia che Merleau-Ponty chiama chiasma della percezione che dà accesso a una ecumenica “carne del mondo”: “le parentele alchemiche/di certi calchi arcaici subcorticali/…onde di onde centrifughe e rotanti/intorno a un baricentro eccentrico/verso un intorno d’aria che non bruci e non geli/una zona abitabile circumstellare”(21).
Questa visione è d’altronde suffragata dalla stessa fisica del campo elettromagnetico, dove le fasce di frequenza, al di qua dell’infrarosso producono le onde radio e le microonde, e al di là dell’ultravioletto i raggi X, capaci di penetrare i tessuti molli e i terribili raggi gamma che sconvolgono la fisiologia delle cellule. Oltrepassando insomma certe soglie il visibile si trasforma naturalmente in udibile (onde radio) e tattile (microonde di calore). Lo spettro infine può essere dilatato dal sogno, in quanto soglia fra il solipsismo autistico e l’esuberanza poetica: “così il sogno dilata la feritoia stretta dello spettro/dilaga su lunghezze umanamente inesperibili” (22).
Questa arcaica reciprocità e sinergia della percezione, che abbiamo rubricato nelle immagini del chiasma e della carne del mondo, si condensa mirabilmente nel nostro testo nel tema dell’acqua come elemento primordiale: “l’acqua è un subliminale risorgente/è tutta corpo, dispersa potenziale/di sé impregnata da sé assorbita/traguarda dalle penne lacerate/bianchi i balani e in altre concrezioni/polimeri di zucchero e salino/…l’acqua è in un momento del suo ciclo/culla xenofila la musica in attesa” (18).
E infine come sinestesia primordiale, cosmica, che evoca la nicchia ecologica del genotipo e da cui erompe infine la parola a partire da conati fonosimbolici e dal dialetto infantile. Vale la pena citare per esteso questa bellissima chiusa: “Nubi di voce, accumuli per piovere/Alonati silenzi/altissimi/su un pianeta di acque antenate,/Faretre d’aria, dita su corda e coda/schiocco, fischio parabola/parola. Altissima/ficcante tra spume di dialetto/sull’arenaria accesa./Incendiaria/l’aurora meridiana di scirocco /trasla un’idea di polvere/dalle giaciture agli amaranti” (30).
Ma sono la bocca e la lingua, gli organi preposti ad aprire qual “valico vocalico” della nominazione che squarcerà lo spettro del visibile, il campo della pura sensazione aprendolo irreversibilmente a quello del senso e del pensiero. La bocca, con le sue labbra schiuse, appare nel contempo come ferita nella carne e veicolo della parola, cesura poetica e ritaglio del mondo ambiente (Riss/Umriss), da cui erompe “l’urlo fantasma che sutura il foro” (13), piega della carne che contiene il bisturi (la lingua-lama) che incide e sutura provvisoriamente le piaghe del mondo: “la piega della bocca a fare media/con tutte la altre piaghe/resta maldestramente suturata” (22).
La lingua, matrice della parola, ma anche organo corporeo su cui bisogna poeticamente esercitarsi, “torcerla al verso/darsi la direzione tra i picchi delle onde/decidere tagliare//la frequenza coattiva la catena/scantonare forse/forse cantare” (19).
Appare anche evangelicamente come lama, bisturi per l’incarnazione della Parola che sovverte l’ordine della scrittura e della storia (“sta scritto ma io vi dico” ripete spesso Gesù): “La lingua squarcia/ l’innocenza del guado/recide da ogni lato/- il prima e il poi, il noi/e il loro, l’oro del ondo/innominato -/” (27). Pescando nei meandri di una memoria muta, ancestrale, atopica, (17) che esplora la carne del mondo, frugando a ritroso nell’indistinzione tattile del dicibile e dell’udibile, “le dita aperte a pettine/ all’indietro” (17), per poter giungere alfine a una possibile palingenesi alchemica della prosa del mondo.
A cura di Giuseppe Martella