
In Franca Alaimo la lunghissima dimestichezza dell’esprimersi in versi, maturata lungo il corso di trent’anni di pubblicazioni, permette all’autrice di osservare rasserenata e placida l’affiorare della propria esistenza dalla fonte della memoria e liberamente seguire il flusso emozionale che guida la scrittura, gli a capo, le rare rime e le più frequenti assonanze e consonanze, le anafore, l’alternanza tra versi lunghi e brevi; tutto in grande armonia e musicalità, cifre caratterizzanti la sua poesia.
L’ultima raccolta 7 poemetti (Interno Libri 2021) condensa uno stile e una visione poetica dell’esistenza: canta la bellezza che circonda il creato, la funzione eternatrice della parola, la fiducia nell’energia vitale (dei corpi, delle emozioni, degli affetti) nonostante le offese e le limitazioni imposte al loro libero esprimersi. Tutto ciò viene soffuso da una sorta di laica sacralità, e anche quando Alaimo nomina Dio o creature ultraterrene (angeli, serafini) lo fa senza scadere in retoriche cattolico-cristiane: il senso del sacro che pervade gli eventi (apparizioni-memorie di infanzia, adolescenza, eventi di cronaca più o meno recenti) si incarna nella unicità degli eventi medesimi, che assurgono a simboli di bellezza oltre i limiti umani di tempo e spazio, in una sorta di fiduciosa e continua rinascita della Vita.
Ai 7 poemetti segue una sezione intitolata frammenti, la più cospicua del volume e non in versi: brevi prose che a coppie solitamente occupano la singola pagina; essi appaiono meno strutturati, quasi non pensati per costituire un percorso preciso, si dispiegano come riflessioni, brevi epifanie, ghirigori della mente poetica. Rispetto alla lettura che li precede hanno più un effetto straniante e di sorpresa che di continuità. Cercano di sondare un’acqua scura, quella del mistero insito nel mondo e nell’io narrante. Parecchi rimandi interni (Vie – Ricominciare; Delirio – Lettori) ed altri più umbratili, ma presenti, a testi della sezione e ad altri dei poemetti, configurano il complesso del libro edito quale punto di arrivo sperimentalista del dire poetico di un’autrice dalla scrittura poliedrica, tanto da permetterle l’uso di nuove forme espressive riunite sotto l’egida di una inesausta sete di Vita e fede nella forza della Parola.

p.21
[…] Tutto ricomincerà
quando mi avrete riconosciuta
come il canto dell’allodola al mattino.
Quando saprò che qualcuno dei miei
versi si è impigliato nei capelli dell’eternità,
Solo le parole sono testimoni.
Ecco che già si schiara.
Il cielo si apre come un occhio immenso.
Celeste.
Io sono ancora qui.
La porta è aperta e sta entrando il tempo,
il tempo della vita che risorge.
Corpo di Cristo trasparente,
luce che avanza.
L’ostia della luna
si scioglie sulla lingua del sole.
La notte si sfarina
in impalpabile chiarore.
p.31
[…] E non so che profumo di gelsomini
vi penetra certe sere
con una voce troppo leggera
di bambino:
andiamo, laggiù ce ne sono tanti.
Dammi la mano. Senti?
Ancora ci muoviamo nella luce lunare
che ci schiara le dita
e si specchia tranquilla
nell’acqua di un boccale
lasciato sopra il tavolo, all’aperto.
E il canto dei grilli fa un’onda così lunga
da attraversare il tempo.
C’era una volta. C’era una bambina
con una corona di latta sopra il capo
che giocava con il mondo
e lo ammirava stupita.
Che spoliazione infinita!
Quanto barbari sono i maestri.
Come grida il cuore:
non devo dire questo,
non devo fare questo,
Sono una donna,
sono un animale muto.
Sono una menzogna.
[…]
il mio corpo accanto al suo corpo,
uno stendardo di seta
più grande dell’ombra blu delle montagne
e lo cuciamo con i paci e le parole
come fosse il solo tra i sacri riti
da offrire all’altare della vita.
Adesso so che il corpo non può avere riposo,
che vivere è come una mano che ci afferra.
Un’acqua che affiora dal fondo della terra
ed ha bisogno di zampillare, furiosa.
Che tutto il resto è solo sonno vuoto.
Che di ogni cosa bisogna scrivere.
Perché la realtà si ricordi
perché si sappia rispondere.
Che scrivere significa essere donne
assolutamente libere,
con la bocca piena di luce,
con tanti fiori che bucano l’oscurità
coprendo la ferita.
p.38
[…]Veniva il fiato caldo dell’estate
a tormentare i fiori,
a svaporare in sudore
il lamento del corpo solitario.
E nella notte di San Lorenzo
distesa su un asse di legno
che raschiava le scapole come una croce
raccoglievo negli occhi la mappa delle costellazioni
attendendo il cadere fiammante delle stelle
per dire a Dio: Eppure com’è tutto bello,
come riluce la morte, lo schianto, l’urto tra cielo e terra!
Cose che adesso pronuncio
con chiarità, senza paura.
Cose che hanno la fissità dell’accaduto
e risuonano in uno spazio tiepido dove
le dite le sfiorano senza più bruciarsi.
I miti della felicità più remote nel tempo
mai più ritornano, non si voltano indietro.
Perse così per sempre Orfeo
la sua bella Euridice.
A cura di Andrea Costrovinci Zenna