
Carcere della terrestrità di Francesca Fiorentin
La parola colta – ed anche còlta – di Francesca Fiorentin è da subito espressa nel titolo della sua nuova raccolta, Carcere della terrestrità (edito da Macabor), che indica un’appartenenza poetica e materiale alla terra, anche in termini spirituali. Ma è uno spirito laico e filosofico il suo, impregnato – nell’io che non c’è e si sottrae –, di una capacità di poetare seguendo le linee di temi che si compenetrano: la vita e la morte, soprattutto, presenti dal ‘carcere della terra’ fino alle spinte di luoghi altri – c’è molto cielo; ci sono astri e c’è il desiderio (nel senso etimologico di “interrogazione delle stelle”) che si dipana, di testo in testo, senza mai esaurirsi nel “vuoto” – un termine cardine di tutto il volume, vero spazio anti-terrestre reso terreno dalla contemporaneità e dalla poesia stessa: «Ho portato il freddo lutto alle porte delle stelle/ gelo di silenzio/ e buia materia inorganica/ mi diedero un tremendo percorso/ procedere lontano, anarchica e satellite», (p. 22).
Tra i riferimenti elettivi dell’autrice, Virginia Woolf, in un dialogo con il suo approccio alla creazione: «Se scrivi per idee – scrivi poco/ se scrivi, Virginia, per sensazioni/ alla tua penna manca il tempo,/ automaticamente cammina,/ di sbieco scrivi, la mente/ solo una parte del cervello impegna,/ fidati di esse, tu puoi.» (p. 68). Ma l’anarchia di Fiorentin sembra affondare nel nero poetare di Jean Cocteau o di Antonin Artaud, maestri inconsapevoli e dissacranti di uno stile che penetra nella tessitura di alcuni passaggi, forse soltanto come un’idea che viene dal lettore e che può sentire sibilare ai margini del testo secondo le voci dei giganti.
L’attenzione della poeta-lettrice – voracissima per sua stessa ammissione – non spinge solo in terra straniera: ed è qui la sfida vinta, sullo stile di tanta poesia odierna: Francesca Fiorentin non costruisce una poesia lirica ma segue l’intonazione oscura e il dettato poetico di Amelia Rosselli, che sembra avere assimilato geometricamente – non specularmente, com’è, ad esempio, in Roberta Sireno – altra autrice impregnata di Rosselli. Non è, per Fiorentin, un tentativo di rifare Rosselli, bensì di agire poeticamente secondo la sua lezione, non reinventandola ma assorbendola e ideandola dal nuovo. Così alcune poesie si accostano alle Variazioni belliche (1959/61) per struttura; ad esempio:
Cose presenti e non desiderate aggiungono una maggiore
nostalgia di quelle che sono invece assenti, feriscono molto
di più, rimandano all’assente con un carico doppio: la sua
mancanza e la pazienza di sopportare il non desiderato.
(p. 19)
Altre invece strutturano, significativamente, la lezione sugli “assoluti” di Rosselli: gli assoluti del mondo che, anche dove la poeta dice ponderatamente “io”, rinvengono per soverchiare l’ordine, il tema (assorbito anche dalla voce di Nella Nobili, autrice operaia), il tempo e il linguaggio. I dettagli, i piccoli aspetti del visivo insospettati (i “piccoli insetti ortofrutticoli”), emergono nella poesia con efficacia. Ma i lapsus rosselliani, per Fiorentin – quelli di Serie ospedaliera(1969) e Documento (1966-1973) – sono soppressi o restano inespressi, appunto nella mente.
In Carcere della terrestrità alcuni dei fili che tengono i testi fagocitano un lessico-chiave; ad esempio “potere”, “potenza” nel primo testo che si propone, oppure “attrazioni” nell’ultimo. La forza della poesia di Fiorentin è dunque una certa immediatezza del dire – anche delle minuzie – mediata da un poetare che crea un’attesa complessità, mentale e introspettiva.
Alessandra Trevisan
Lascia il potere a chi non ha un potere
e ricordati che è necessario
essere è poter essere
dispiegarsi di uno di fronte all’altro.
Trova un’altra forma per il tuo poter essere
inventa lo spazio fra te e altri
o ne verrai soggiogato
la volontà di potenza, il male, è anche in noi,
e io anarchica vi prego
non disturbatemi.
(p. 33)
Prendo nota delle cose attorno
la quotidianità
prendo nota di cose lontane
rare
prendo nota – non partecipo
alla visione dell’altro delle vette –
Disturbata da piccoli insetti ortofrutticoli
dal respiro faticoso nella strozza del lavoro
la scrittura ridotta a zero –
il mio esaurimento cerebrale.
(p. 49)
La mia casa erano molte case
cercavo quella vera.
Nessuna traccia, nessuno sapeva
era ora questa, ora quella
tutte da me riconosciute come case dell’infanzia.
Mi spostavo da una all’altra
e rimaneva la domanda
quale è la mia unica, davvero?
quale fu per me scelta, all’inizio?
Una era sottoterra, tra i topi
una da comprare aveva un lago dentro,
molte comprate,
da dove venivo, non so,
dove avevo visto me stessa bambina?
(p. 55)
Tu vuoi meno morire
e meno vivere, che meno sia
da decidere, che non
attrazioni ti portino
sopra o sotto, vorresti – dico,
galleggiare come boa.
(p. 66)
