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Il demone dell’analogia #33: Vento

«Una strana amicizia, i libri hanno una strana amicizia l’uno per l’altro. Se li chiudiamo nella mente di una persona bene educata (un critico è soltanto questo), lì al chiuso, al caldo, serrati, provano un’allegria, una felicità come noi, esseri umani, non abbiamo mai conosciuto. Scoprono di assomigliarsi l’un l’altro. E ognuno di loro lancia frecce, bagliori di gioia verso gli altri libri che sembrano (e sono e non sono) simili. Così la mente che li raccoglie è gremita di lampi, di analogie, di rapporti, di corti circuiti, che finiscono per traboccare. La buona critica letteraria non è altro che questo: la scoperta della gioia dei libri che si assomigliano». Mario Praz

Collage digitale di Dina Carruozzo Nazzaro (da Emil Nolte + Olga Grigorieva)
Il demone dell’analogia #33: Vento

 

L’intruso

Le tre sorelle dalla tela rozza
levano gli occhi sbigottite, poi
che una voce pervade i corridoi
come d’uno che irride o che singhiozza.
Il vento in casa! Il vento cresce, cozza,
sibila, mugge come cento buoi.
Ogni sorella pensa ai casi suoi,
l’altra chiamando con la voce mozza.
In breve dai soppalchi al limitare
discacciano il nemico, nell’assedio
invocando a gran voce tutti i santi.
Ognuna torna poi ad agucchiare,
ed accompagna il ritmo del suo tedio
all’orchestra dei tremoli svettanti.

da La via del rifugio di Guido Gozzano

 

Ricordo d’un addio in una taverna di Nanchino
(Gushi-qiyanshi)

Con il vento entra nella taverna
                un profumo di salici in fiore.
La bella di Wu che mesce il vino
                mi chiama che assaggi.
Gli amici di Nanchino
                son venuti a farmi compagnia:
chi parte, chi resta,
                ognuno vuota il bicchiere.
Prova a chiedere al Fiume
                che scorre verso oriente
se la tristezza degli addii
     è più lunga o più breve del suo corso.

Li Bai, in Poesie Cinesi d’amore e di nostalgia
(trad. di Girolamo Mancuso)

 

Mi diede un otre, che fece scuoiando un bue di nove anni,
e dentro degli urlanti uragani costrinse le strade;
perché signore dei venti lo fece il Cronide,
e può fermare e destare quello che vuole.
Nella concava nave l’otre legava con una catenella d’argento,
lucente, che non trapelassero fuori per nulla;
e solo il vento di Zefiro mi mandò dietro a soffiare,
che portasse le navi e noi pure; ma non doveva
condurci a fine: perimmo, per la nostra pazzia.
Nove giornate di seguito navigammo di giorno e di notte,
al decimo già si scorgevano i campi paterni,
gli uomini intorno ai fuochi vedevamo, vicini.
Allora il sonno soave mi prese, ch’ero sfinito;
continuamente alla barra ero stato, senza darla a nessuno
dei compagni, perché più presto arrivassimo in patria;
e i compagni parole fra loro parlavano,
e dicevano che oro e argento a casa portavo,
doni d’Eolo magnanimo, figlio d’Ippote.
Così qualcuno diceva guardando l’altro vicino:
«Vedi come costui è amato e onorato dagli uomini
tutti, dei quali visita contrade e città
da Troia si porta le molte belle ricchezze
del suo bottino; e noi, fatta la medesima via,
a mani vuote ce ne torniamo a casa.
Ora poi anche questo gli ha dato per amicizia
Eolo; presto, dunque, vediamo cos’è,
quant’oro e argento c’è dentro l’otre».
Così dicevano e vinse la mala idea dei compagni:
sciolsero l’otre: i venti tutti fuori balzarono,
e all’improvviso afferrandoli, al largo li riportò l’uragano,
piangenti, lontano dall’isola patria. In quel momento io fui desto,
e nel mio nobile cuore esitai per un attimo
se gettandomi giù dalla nave dovessi uccidermi in mare,
o soffrire in silenzio, e ancora tra i vivi restare.

da Odissea di Omero
(trad. di Rosa Calzecchi Onesti)

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