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Dante 2021 #8: Dante e Giovanni Boccaccio

Dante muore a Ravenna settecento anni or sono, la notte tra il 13 e il 14 settembre 1321. Un anniversario importante, che su queste pagine non può passare inosservato. «Poetarum Silva» intende commemorarlo, il 14 di ogni mese, attraverso le pagine di autori che gli hanno reso omaggio, trasformandolo in personaggio della loro scrittura critica, narrativa, poetica.

DANTE, BOCCACCIO E L’INCOMPIUTA COMMEDIA

L’opera letteraria e filologica di Giovanni Boccaccio è attraversata da un fil rouge: la figura amata e venerata di Dante Alighieri. Nella Caccia di Diana e nell’Amorosa visione egli riutilizza la terzina dantesca; nella seconda opera, Dante è addirittura un personaggio, cosa già successa nel Filocolo e che si ripeterà nel De casibus. Convinto della grandezza dell’Alighieri, Boccaccio dedicherà giornate intere a copiare le sue pagine migliori e a commentare, dal pulpito della chiesa di Santo Stefano di Badia, a Firenze, alcuni canti della Divina Commedia. Ma l’apice del suo amore e della sua devozione lo raggiungerà scrivendo il Trattatello in laude di Dante, opera in cui l’ammirazione miscela elementi biografici reali con episodi apocrifi – o nel migliore dei casi ingigantiti – atti a creare il mito del venerato maestro. Tale opera, emendata dai difetti suddetti, viene comunque considerata la prima biografia dell’Alighieri abbastanza attendibile, perché il certaldese si prese la briga di indagare la vita di Dante a partire da alcuni dati certi e dai racconti di testimoni oculari e attendibili.
Del Trattatello furono concepite tre redazioni: la prima, più ampia e più complessa, ricca di divagazioni e di aneddoti, fu scritta fra il 1351 e il 1355; le altre due, più stringate e molto simili tra loro, sono collocabili tra il 1359 e il 1366 per quanto riguarda la prima e non oltre il 1372 per quanto riguarda la seconda.[1]
La prima redazione, di cui ci accingiamo a parlare, già nel titolo in latino fa intravedere, secondo l’uso del tempo, le intenzioni biografico-letterarie di Boccaccio: De origine, vita, studiis et moribus viri clarissimi Dantis Aligerii florentini, poete illustris, et de operibus compositis ab eodem, incipit feliciter. Essa si apre con solenne drammaticità, ricordando come il grande giurista Solone avesse più volte affermato che ogni civiltà degna di questo nome debba punire i comportamenti scorretti e premiare quelli corretti, cosa che nella Firenze di Dante non si faceva più e ciò ha portato alla condanna e all’esilio di uno dei cittadini più meritevoli di ossequio e di lode: Dante stesso.
Dopo questo panegirico, Boccaccio si addentra nell’albero genealogico del grande fiorentino, partendo dal romano Eliseo Frangipani e arrivando al padre del poeta, non senza accennare a Cacciaguida, fulgido esempio, anche nell’opera del suo discendente, delle virtù della famiglia. Via via, dopo la nascita, elenca gli episodi salienti, dall’incontro con Bice di Folco Portinari ad una festa di Calendimaggio, alla morte di lei, al matrimonio con Gemma di Manetto Donati. Qui la biografia s’intreccia all’ammirazione per un uomo che è riuscito a diventare un artista sommo, nonostante tre fatti che remavano contro: il suo amore per Beatrice, il suo impegno politico e il matrimonio. Su tutto vinsero la sua forza di volontà e il suo supremo amore per l’arte e la cultura:

Non poterono gli amorosi desiri, né le dolenti lagrime, né la sollecitudine casalinga, né la lusinghevole gloria de’ publici ofici, né il miserabile esilio, né la intollerabile povertà giammai con le loro forze rimuovere il nostro Dante dal principale intento, cioè da’ sacri studii; perciò che, sì come si vederà dove appresso partitamente dell’opere da lui fatte si farà menzione, egli, nel mezzo di qualunque fu più fiera delle passioni sopra dette, si troverà componendo essersi esercitato. E se, ostanti cotanti e così fatti avversarii, quanti e quali di sopra sono stati mostrati, egli per forza d’ingegno e di perseveranza riuscì chiaro qual noi veggiamo, che si può sperare che esso fosse divenuto, avendo avuto altrettanti aiutatori, o almeno niuno contrario, o pochissimi, come hanno molti? Certo, io non so ma se licito fosse a dire, io direi che egli fosse in terra divenuto un iddio.[2]

Oltre alle varie vicissitudini biografiche, nel Trattatello ha un ruolo rilevante il racconto della compilazione della Comedia, impresa che viene descritta come tutt’altro che facile. Boccaccio narra che Dante, prima di essere bandito da Firenze, avesse già scritto sette Canti dell’Inferno, ma, nella confusione del momento, non poté portarli con sé. Essi furono miracolosamente ritrovati dal poeta stilnovista Dino Frescobaldi, il quale, appreso che l’Alighieri si trovava presso il marchese Morruello, mandò le carte al marchese stesso, che le consegnò all’autore perché «gli piacesse non lasciare senza debito fine sì alto principio»[3]
Il poeta lavorò al suo capolavoro in modo faticoso e discontinuo:

Ricominciata adunque da Dante la magnifica opera, non, forse che molti estimerebbono, senza più interromperla la perdusse alla fine; anzi più volte, secondo che la gravità dei casi sopravegnenti richiedea, quando mesi e quando anni, senza potervi operare alcuna cosa, mise in mezzo; né tanto si poté avacciare, che prima nol sopraggiungesse la morte che egli tutta pubblicare la potesse.[4]

La morte lo colse dunque a Ravenna senza che egli potesse consegnare a nessuno gli ultimi tredici canti da lui composti, per cui, dopo mesi e mesi di infruttuose ricerche, i familiari e gli amici erano arrivati alla conclusione che l’opera fosse rimasta incompiuta. Qualcuno aveva persino pregato i figli Jacopo e Piero, anch’essi poeti, di portare a termine lo scritto paterno, affinché non rimanesse incompleto. I due tergiversavano, non ritenendosi degni del compito, ma comunque incerti sul da farsi, perché l’opera non poteva certamente rimanere così, monca e incompiuta. A questo punto Boccaccio riporta un episodio ai limiti del soprannaturale, vale a dire un sogno di Jacopo, in cui l’illustre padre in persona venne a fargli visita per risolvere l’altrimenti irrisolvibile situazione:

Raccontava un valente uomo ravignano, il cui nome fu Piero Giardino, lungamente discepolo stato di Dante, che, dopo l’ottavo mese dalla morte del maestro, era una notte, vicino all’ora che noi chiamiamo «matutino», venuto a casa sua il predetto Jacopo, e dettogli sé quella notte, poco avanti a quella ora, avere nel sonno veduto Dante suo padre, vestito di candidissimi vestimenti e d’una luce non usata, risplendente nel viso, venire a lui; il quale gli parea domandare se egli vivea, e udire da lui per risposta di sì, ma della vera vita, non della nostra; per che, oltre a questo, gli pareva ancora domandare, se egli avea compiuta la sua opera anzi il suo passare alla vera vita, e, se compiuta l’avea, dove fosse quello che vi mancava, da loro giammai non potuto trovare. A questo gli parea per seconda volta udire per risposta: «Sì, io la compie’»; e quinci gli parea che ‘l prendesse per mano e menasselo in quella camera dove era uso di dormire quando in questa vita vivea; e, toccando una parte di quella, dicea: «Egli è qui quello che voi tanto avete cercato». E questa parola detta, a una ora il sonno e Dante gli parve che si partissono. Per la qual cosa affermava sé non avesse potuto stare senza venirgli a significare ciò che veduto avea, acciò che insieme andassero a cercare nel luogo mostrato a lui, il quale egli ottimamente nella memoria aveva segnato, a vedere se vero spirito o falsa delusione questo gli avesse disegnato. Per la quale cosa, restando ancora gran pezzo di notte, mossisi insieme, vennero al mostrato luogo, e quivi trovarono una stuoia, al muro confitta, la quale leggiermente levatane, videro nel muro una finestretta da niuno di loro mai più veduta, né saputo che ella vi fosse, e in quella trovarono alquante scritte, tutte per l’umidità del muro muffate e vicine al corrompersi, se guari più state vi fossero; e quelle pianamente dalla muffa purgate, leggendole, videro contenere li tredici canti tanto da loro cercati. Per la qual cosa lietissimi, quegli riscritti, secondo l’usanza dell’autore prima gli mandarono a messer Cane, e poi alla imperfetta opera ricongiunsono come si convenia. In cotale maniera l’opera, in molti anni compilata, si vide finita.[5]

 

© Paola Deplano

 


[1] Cfr. Luigi Sasso, Prefazione a Giovanni Boccaccio, Trattatello in laude di Dante, Garzanti, Milano 1995 (rist. 2007), pp. XXXV-XXXVI.
[2] Giovanni Boccaccio, Trattatello in laude di Dante, cit., p.33.
[3] Ivi, p. 68.
[4] Ibidem.
[5] Ivi, pp. 69-71.

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