
Un paese ci vuole? Su come citare Pavese a sproposito
Una delle pagine più citate di Pavese, nella Luna e i falò, è la parte finale del suggestivo, lungo incipit, dove l’io narrante dice: “un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”.
Quante volte abbiamo letto con troppa fretta queste parole e magari travisato le intenzioni del suo autore?
Di solito vengono intese quale sorta di inno alla necessità di una comunità di appartenenza. Infatti, raramente chi le cita prosegue fino ad arrivare al resto e cogliere la parte più inquieta: “Ma non è facile starci tranquillo. Da un anno che lo tengo d’occhio […]”, confessa Anguilla, “[…] e quando posso ci scappo da Genova, mi sfugge di mano. Queste cose si capiscono col tempo e l’esperienza. Possibile che a quarant’anni, e con tutto il mondo che ho visto, non sappia ancora cos’è il mio paese?”.
Ebbene, è davvero questo che Pavese vuole dire?
È indubbio che Anguilla, quest’orfano cresciuto nelle Langhe, passato di famiglia in famiglia, e poi emigrato in America per far fortuna e poter ritornare da vincente, conservi un legame profondo col passato e con la sua terra. Sarà sempre Anguilla a giustificarsi con se stesso: “ho girato abbastanza il mondo da sapere che tutte le carni sono buone e si equivalgono, ma è per questo che uno si stanca e cerca di mettere radici, di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri qualcosa di più che un comune giro di stagione”, o ancora, qualche pagina dopo: “Così questo paese, dove non sono nato, ho creduto per molto tempo che fosse tutto il mondo. Adesso che il mondo l’ho visto davvero e so che è fatto di tanti piccoli paesi, non so se da ragazzo mi sbagliavo poi molto”.
Ma per capire fino in fondo se un paese ci vuole, e cioè per non banalizzare la riflessione di Pavese, occorre forse incrociare Anguilla con il suo doppio, ovvero Nuto, l’amico rimasto a casa. Infatti lo stesso Anguilla, al cospetto di Nuto, è costretto ad ammettere che il suo amico “voleva ancora capire il mondo, cambiare le cose, rompere le stagioni […]. Ma io, che non credevo alla luna, sapevo che tutto sommato soltanto le stagioni contano, e le stagioni sono quelle che ti hanno fatto le ossa, che hai mangiato quand’eri ragazzo. Canelli è tutto il mondo – Canelli e la valle del Belbo – e sulle colline il tempo non passa.”
Il fatto è che al Nuto politicizzato non basta che il tempo non passi. Quello di cui si compiace l’emigrante nostalgico Anguilla, a Nuto non può bastare perché egli comprende che quando il tempo non passa la storia si ripete, e che quando la storia è ingiusta un luogo può divenire qualcosa da cambiare a ogni costo oppure da abbandonare per sempre. E allora Nuto ribadisce che “superstizione è soltanto quella che fa del male, e se uno adoperasse la luna e i falò per derubare i contadini e tenerli all’oscuro, allora sarebbe lui l’ignorante e bisognerebbe fucilare in piazza”.
Se Anguilla, per sua stessa ammissione, tutto sommato ritorna al paese per un fatto personale, per vedere melanconicamente qualcosa che aveva già visto, che era dentro di lui, egli è pur sempre in grado di riconoscere che il suo amico Nuto “non è andato per il mondo, non ha fatto fortuna. Poteva succedergli come succede in questa valle a tanti – di venir su come una pianta […] ma anche a lui è toccato un destino – quella sua idea che le cose bisogna capirle, aggiustarle, che il mondo è mal fatto e che a tutti interessa cambiarlo”.
Ed è proprio la conferma che ritroviamo nel breve dialogo tra i due amici che segue:
– “In America c’è di bello che sono tutti bastardi”, dice Anguilla.
– “Anche questa è una cosa da aggiustare. Perché ci deve essere chi non ha nome né casa? Non siamo tutti uomini?”, risponde Nuto.
Dunque, all’umanitarismo di Nuto è destinata la parte di contraltare della visione esistenzialista di Anguilla, il quale comunque mostra la consapevolezza che un paese a volte non solo non basta, ma forse addirittura “non sempre ci vuole”, e che ha ragione Nuto quando sostiene che “vivere in un buco o in un palazzo è lo stesso, che il sangue è rosso dappertutto, e tutti vogliono essere ricchi, innamorati, far fortuna”.
Insomma, rifugiarsi nel mito, al di fuori della storia, per dirla con Carlo Levi, non basta nemmeno ad Anguilla.
Per l’orfano Anguilla la città e l’America sono state l’occasione per uscire dall’immobilismo del paese e prendere in mano il proprio destino di bastardo, ecco perché egli pensa così intensamente a Cinto, al ragazzo storpio incontrato in collina, e vuole “mettergli voglia di andarsene via”, almeno a Genova. Perché un paese ci vuole, ma non per Cinto, e Anguilla lo sa bene. Uno zoppo in campagna, come un orfano, sarà sempre un servo, e soprattutto occorre salvarlo dal padre Valino, forse per la miseria e la rabbia, violento fino alla follia.
Anguilla e Nuto, dunque, rappresentano alcune delle diverse anime del paese e Pavese è lì, nel mezzo, a dire che se non c’è alternativa tra paese e mondo, tra unità e varietà, ebbene non c’è neppure una sola risposta possibile.
Superato il mito, il paese mostra la sua antica rete di conflittualità: il contrasto tra immobilismo e attivismo, quello tra palingenesi collettiva, privilegio, e salvezza individuale, come nella Casa in collina o in Paesi tuoi, anche stavolta emerge e si fa violento.
Come violento e tragico è il destino di Gisella in Paesi tuoi, così nessuno sembra salvarsi dall’epilogo della Luna e i falò. Tristissimi saranno i destini delle pur ricche Irene e Silvia, e d’altronde in un breve passaggio del romanzo lo stesso Anguilla era stato avvertito, quando il conte decaduto, – e per questo continuamente vilipeso dai paesani, – gli dice: “lei non sa che cos’è vivere senza un pezzo di terra in questi paesi”.
In fondo, la verità è che l’io narrante, pur desiderando un paese, capisce di esservi lontano, di essere distante dal suo stesso mondo di provenienza, anzi sente di non esser più di alcun luogo, perché vivere in molti paesi vuol dire proprio non averne alcuno, e fermare il tempo è solo un’illusione a cui cede, ovunque, solo chi cerca riparo dall’indifferenziazione nella continuità.
A ben guardare, Anguilla è tentato dalle origini, egli per un attimo cede all’idea di comunità, alla speranza che essa in qualche modo lo riconosca e lo lasci vivere, qualsiasi cosa accada. Ma quello che accade mostra la distanza e la misura del caso. Mostra la lunga strada da percorrere per emancipare e trasformare la comunità, per piccola che sia, in una società.
È questo il sogno del buon amico Nuto, che non si dà pace, e prende con sé il piccolo storpio Cinto per insegnargli un mestiere. Cinto forse si salverà grazie a Nuto, la cui vita è tutt’uno con le ingiustizie del mondo, e non c’è paese che tenga, nella sua prospettiva, senza giustizia e libertà. Nuto vuole che ogni paese sia mondo, che ognuno abbia un paese e un nome, cosicché ogni carne abbia finalmente valore umano, perché il sangue è rosso per tutti e alla fine ognuno prima o poi sogna gli stessi sogni.
In mezzo a tutto questo, c’è il mondo di Cesare Pavese, con i suoi incubi e le sue intensissime passioni. Se un paese ci vuole, sembra dire lo scrittore piemontese, avrà bisogno di tantissimi Nuto, e di tutto l’impegno e il coraggio possibile. E ancora non è detto che, in tal modo, un paese sia un luogo per tutti.
©Sandro Abruzzese
Una replica a “Sandro Abruzzese, Un paese ci vuole? Su come citare Pavese a sproposito”
[…] articolo è stato pubblicato in precedenza qui su Poetarum […]
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