Ogni episodio di Twin Peaks (in attesa dei nuovi, annunciati per quest’anno) è introdotto da un monologo di Margaret Lanterman, conosciuta da tutti come la Signora Ceppo perché gira abbracciando un ciocco di legno con cui si confida e dal quale ottiene rivelazioni. Potrebbe essere la pazza del paese, se a scarseggiare a Twin Peaks non fosse proprio la normalità. Quei monologhi, scritti dallo stesso Lynch, sono in definitiva una successione di poemetti in prosa, misteriosi, surreali, bellissimi. Hanno un valore poetico autonomo, e al tempo stesso sono una chiave di accesso al mondo immaginato dal regista e dai suoi collaboratori (Mark Frost, co-ideatore, su tutti). Dalle parole cercherò ogni volta di andare alla storia e ai personaggi, senza però svelare troppo per chi ancora ha la fortuna di non aver visto la serie. E tuttavia ogni spiegazione sarà solo l’inizio di qualcosa: nel linguaggio di Lynch, sia verbale che cinematografico, permane un residuo di non significato, un nodo di oscurità, un ceppo che non brucia e che parla.
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[Episodio Ventisette – Il sentiero per la Loggia Nera]
There are clues everywhere, all around us. But the puzzle maker is clever. The clues, although surrounding us, are somehow mistaken for something else. And the something else, the wrong interpretation of the clues, we call our world. Our world is a magical smoke screen. How should we interpret the happy song of the meadowlark or the robust flavor of a wild strawberry?
Una replica a “Ciò che disse il legno: Twin Peaks attraverso i monologhi della Signora Ceppo #28”
L’ha ribloggato su A proposito di un cane in livrea.
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