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Radiohead, A moon shaped pool

radiohead. a moon shaped pool

Radiohead, A moon shaped pool

XL, 2016

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di Ciro Bertini

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Dai tempi di Ok Computer un’attesa carica di aspettative, ansie e speranze precede ogni nuova uscita discografica del quintetto di Oxford. “Cosa si inventeranno stavolta?” Pare essere questo il sentimento dominante nella testa dei milioni e milioni di fan che i Radiohead hanno radunato attorno a sé in tanti anni di onorata carriera. Ammesso che nel 2016 il rock possa ancora “inventarsi” qualcosa, che tipo di band è quella che si presenta a noi con A Moon Shaped Pool? Prima di provare a rispondere, facciamo un passo indietro e torniamo al 2011, perché è con quel pasticciato e insipido The King of Limbs che abbiamo lasciato, delusi e amareggiati, la band di Thom Yorke. Forse consci loro stessi di aver commesso un mezzo passo falso e desiderosi di un cambio di rotta, i Radiohead smorzano l’elettronica un po’ ammuffita di quell’album e si rimettono a fare ciò che da sempre riesce loro meglio: scrivere e suonare canzoni malinconiche e introspettive. Una rinascita artistica, quindi? In realtà no, perché anche se la strada imboccata sembrerebbe quella giusta, l’album purtroppo non decolla e arrivati alla fine non si possono provare un po’ di amarezza e pure di insoddisfazione verso un’opera complessivamente poco emozionante e del tutto priva di quei lampi di genio che tante volte, in passato, ci hanno fatto quasi gridare al miracolo.
Eppure l’avvio è da brivido, con quella Burn the Witch già degna di essere annoverata fra i “classici” della band. Voce e orchestra si fondono meravigliosamente in un fantastico gioco di contrasti fra archi taglienti come lame e un canto leggiadro ed etereo, mentre la tensione si accumula implacabile, scatenandosi in un finale pirotecnico. Un brano eccellente, e il video in clay animation che l’accompagna non è da meno. La decisione di aprire l’album con Burn the Witch, però, non è stata fra le più sagge. Dopo un incipit così spumeggiante ci si aspetterebbero ben altre prodezze rispetto a quanto invece messo in campo, e la lenta, soporifera Daydreaming è subito pronta a ricordarci che questi, purtroppo, non sono più i geni di Paranoid Android, The National Anthem, Just, There There e Pyramid Song, ma musicisti di mezz’età che sanno confezionare un prodotto di classe ma hanno perso la capacità di infondergli calore e vigore.

Proseguendo con la tracklist, tra i brani più interessanti spiccano la rarefatta e sognante Present Tense, un po’ Reckoner, un po’ Weird Fishes/Arpeggi, e la breve, intensa e sofferta Glass Eyes. Si trascina invece stancamente l’infantile Decks Dark, sostenuta da un canto monotono e un accompagnamento minimale, fortunatamente ravvivata nel finale dalle schitarrate di Johnny Greenwood, proprio quelle schitarrate di cui abbiamo tanto sentito la mancanza in The King of Limbs. Chitarra acustica e pianoforte fantasioso guidano invece The Numbers, ma anche qui si resta in attesa di un guizzo, uno slancio che accenda un brano che potremmo definire al massimo grazioso. Senza quello slancio, la canzone semplicemente scorre e se ne va, e noi, disarmati, rimaniamo a chiederci: “E quindi?” Le cose non vanno meglio con le stanche Tinker Tailor Soldier Sailor Rich Man Poor Man Beggar Man e Identikit. Desert Island Disk è invece un intermezzo per voce e chitarra dal sapore vagamente country, che precede la spaziale Ful Stop, immersa in un mare agitato da tastiere spettrali e ipnotiche. Chiude il disco True Love Waits, brano per voce e chitarra acustica datato addirittura 1995, inciso nel live I Might Be Wrong del 2001 ed eseguito innumerevoli volte nei concerti. La scelta di rimpiazzare la chitarra con un piano elettrico stile Everything in its Right Place è senza dubbio un segno del tempo che passa, anche se questa nuova atmosfera rarefatta e sconsolata, su cui forse pesa la separazione fra Thom e la sua compagna dopo 23 anni insieme, perde completamente la bellezza struggente e quell’emotività e spontaneità così squisitamente calde e umane della versione originale.

Mentre ancora mi chiedo (e me lo chiedo dal 2011) il motivo di affiancare all’ottimo Phil Selway un secondo batterista nelle esibizioni live, rimane anche da chiarire il ruolo di Ed O’Brien, che, quasi scontasse la pena per essere rimasto l’unico “purista” della sei corde, da tempo si ritrova relegato alla funzione di comprimario, schiacciato fra le personalità poliedriche (“multitasking”, per usare un termine molto di moda) di Thom Yorke e Johnny Greenwood, abilissimi a destreggiarsi fra chitarre acustiche ed elettriche, pianoforte, tastiere e diavolerie elettroniche.
In conclusione, se questa opera nona ha un merito, è quello di essersi scrollata di dosso The King of Limbs, come se la stessa band lo considerasse una (brutta) parentesi chiusa (mi auguro) per sempre. Per trovare la fonte di ispirazione dobbiamo risalire a In Rainbows, di cui A Moon Shaped Pool sembra essere la naturale evoluzione. Certo, mancano i colori sgargianti, le mille luci, la fantasia e la spontaneità di quell’album, “sacrificate” in nome di una maggiore omogeneità stilistica e di un grigiore esistenziale spesso davvero monotono. Pochi i ritmi incalzanti, poche le melodie accattivanti, nessuna vera sorpresa. Che tipo di band è, quindi, quella che si presenta a noi nel 2016? Una band stanca, disincantata e senza grinta che scrive canzoni “normali”. Come dite? “This is what you get when you mess with us”? Ribatto con un più appropriato “I’m lost at sea. Don’t bother me. I’ve lost my way”. Intendiamoci, nulla di male nello scrivere canzoni normali, ma questi sono pur sempre i Radiohead. E personalmente, anche nel 2016, non mi accontento.

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© Ciro Bertini

Una replica a “Radiohead, A moon shaped pool”

  1. Grazie Ciro per questa recensione. Anche se personalmente ho amato molto The King Of Limbs sono d’accordo su ogni parola scritta per questo nuovo disco. Spero comunque di riuscire a sentirli dal vivo fra non molto, di nuovo. Chissà…

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