
Quello che colpisce di Scorpion Dance, nuovo libro di Shifra Horn da poco in libreria per Fazi Editore, è la presenza vigile e mai prepotente dei fiori. Sono ovunque: regalati o notati per strada, sono i cespugli di gelsomino che fanno odore, i fichi sotto cui nascondersi, fino al glicine simbolo della casa attorno cui ruota il motivo della narrazione. Orion, giovane uomo, imbastisce per la sua basherte un racconto che le regali l’intera sua identità, come un’offerta d’amore dopo che il glicine li ha fatti incontrare:
Casa tua – l’immagine speculare della mia – gridava provvisorietà. Le molle sporgevano dall’imbottitura di una poltrona macchiata. Un armadio a cui mancavano le ante rivelava pochi abiti leggeri, e un vecchio frigorifero dallo sportello bombato gorgogliava accanto a noi. Tu posasti il bollitore sui fornelli, e io guardai i muri scrostati, le mattonelle rotte, il soffitto macchiato di muffa e gli scuri deformati, e udii me stesso offrirsi di imbiancare casa tua ed effettuare le riparazioni necessarie. Farò qualsiasi cosa per trasformarla in una dimora permanente, pensai. Purché tu resti. Dandomi la schiena, versasti l’acqua calda nelle tazze senza dire una parola.
«L’ha comprata, questa casa?», ti chiesi, spavaldo.
Tu scuotesti la testa e mi domandasti quanto zucchero volevo.
«Un cucchiaino. Ma per quale motivo ha preso in affitto un appartamento in queste condizioni?».
«Per via del glicine».
Era la risposta che segretamente mi aspettavo. E capii che tu mi eri stata mandata.
Nella trama danzante del libro, il filato è nelle mani di Orion, nato orfano di padre e cresciuto con una vedova troppo giovane e una nonna tedesca che odia la Germania. Può essere un romanzo picaresco, ma suo padre è morto nella guerra dei Sei Giorni, sua madre rifiuta di sentire le bombe sulla propria testa e sua nonna sopporta gli sputi di chi sente il suo accento; la storia presente e passata di Israele e di chi vive in Israele – la guerra, le ferite, i muri, gli avambracci tatuati – si intreccia alla storia personale dell’uomo-Orion, creatura innamorata che racconta alla donna che ama (anche lei tedesca, anche lei con sulle spalle il peso del tentativo della riconciliazione) gli andirivieni dei ricordi della sua vita. Lo scambio, il “tu” dell’amante cui si rivolge il narratore (amante che chiede, amante-Sultano, bulimica di sapere come ogni innamorata), permette un racconto che abbraccia in maniera mai cronologica la storia di una famiglia e la ferita di un popolo. Tanto più se quel “tu” rivolto a una giovane cantante tedesca si confonde, nello sguardo del narratore, a quello della nonna tanto amata, calco di lei da anziana nelle movenze e nell’accento e in quello che è il vero cuore del libro, la difficoltà a far riposare quello che è successo tra il popolo ebraico e la vicenda accaduta «laggiù». Potrebbe essere, il libro, una storia di identità, dove due donne che non si sono mai incontrate potrebbero essere la stessa donna amata, generazioni più giovani possono piangere la colpa delle vecchie e perfino Dio potrebbe non avere la barba bianca, non avendolo del resto mai guardato in faccia. Potrebbe, se non fosse un libro sulla memoria, tanto nel dolore di vederla trasformata in sassate contro la porta di un’ebrea tedesca quanto nella dolcezza di farsene carico su un furgone dei gelati.
Oppure, attraversando i misteri e le nevrosi di una privata storia familiare, raccontandola a un corpo steso accanto al proprio.
Perché è lei, la memoria, la vera sovrana della verità: «La realtà è multiforme, e la memoria la interpreta a suo capriccio.»
© Giovanna Amato
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Shifra Horn
Scorpion Dance
(traduzione di Silvia Castoldi)
Fazi Editore, 2016
€ 18,50; e-book € 9,99
