
La Grande Guerra: poesia in trincea
21 giugno. Rocca di Monfalcone. La mattina con l’alba ci si leva indolenziti: forse ci pesa nelle vene l’inerzia del giorno prima. Il caffè, buono, mi rianima un poco. Andiamo agli avamposti, questa volta a destra della Rocca. La linea è fuori del bosco, sul ciglio, dietro un muricciolo a secco, rafforzato da sacchetti a terra; pochi metri avanti, sul pendìo, son gettati alla rinfusa dei cavalli di Frisia. In linea, seminati a distanza, non ci stanno che pochi granatieri di guardia, tutti gli altri sono di qua, sulla pendice boscosa, nei ricoveri, pronti ad accorrere. La nostra squadra è, col capitano, al centro. Secondo il turno, l’uno o l’altro di noi porta gli ordini ai vari plotoni o serve di collegamento. Gli austriaci battono le nostre posizioni, ma ormai ci siamo abituati. Mi addormento sotto il mio ricovero: tre grosse pietre ad angolo, tronchi di pino intrecciati, di sopra, e coperti da altri sassi più piccoli e da sacchetti a terra. Mi sveglia lo schianto pauroso d’una granata e faccio giusto a tempo a uscire, ché una lavina di sassi e di schegge s’abbatte sul mio ricovero e lo fa in parte crollare. Bisogna ricostruirlo al più presto. Carlo, uscito dal suo, vistomi illeso, m’aiuta. Andiamo poi a prendere delle altre pietre per rafforzarlo. Ma è umiliante aggirarsi intorno ai ricoveri, per cercar qualche cosa: da per tutto si pesta nella merda, che sprigiona un puzzo insopportabile. Non ci sono latrine, ognuno evacua all’aperto, quanto può più vicino al suo o al ricovero degli altri; la fretta, per la paura d’esser colpiti, elimina ogni altro riguardo. E così questa collina rivestita di teneri pini e profumata d’erbe e di resina, questa collina su cui si viene a morire, si spoglia a poco a poco e diventa un letamaio.
Nel pomeriggio gli austriaci ci lasciano in pace. Possiamo persino allontanarci dalle nostre tane. C’è da vedere, poco distante, un grosso proiettile inesploso, adagiato sulla china, sopra un cespuglio, come un enorme sigaro nero e lucido. Tutti, a uno a uno, andiamo ad ammirarlo. Fa ancora paura; pur verrebbe la voglia di passarci sopra, leggermente, una mano, ma non ci si arrischia: il più piccolo impulso datogli può farlo sdrucciolare e scoppiare. Il capitano lo farà circondare da filo spinato, perché nessuno lo tocchi. Sono puerili forse, ma istintive ed umane codeste precauzioni da parte di morituri. Quanti di noi torneranno?
Più che la visita alla granata inesplosa, m’ha fatto piacere la passeggiata al varco. Il capitano ritorna da un giro d’esplorazione; lo vedo fermarsi davanti al suo ricovero; ansima un poco, appoggiandosi con tutto il corpo grosso al suo bastone, mi chiama con un cenno della mano e mi dice che a duecento passi c’è un varco nella pineta, da cui si vede benissimo Trieste. Mi sento sussultare il cuore, e il desiderio è tanto grande che mi faccio coraggio: gli domando se mi permette di andarci. Me lo permette e m’indica bene la posizione. Caro Capitano! M’affretto, giro, ritorno sui miei passi, temo di non trovarla, ma improvvisamente s’apre ai miei occhi il golfo di Trieste. Duino, Miramare, Trieste. La città si confonde con l’azzurro delle colline, ma ne riconosco ogni segno; vorrei esserle ancora più vicino, solo un attimo, per distinguerne le case e le vie. Nel palpito dell’aria che le sta sopra, immagino il respiro di mia madre. Sento con un senso misterioso che non è la vista e non è il tatto, ma è un complesso dei due, la presenza della nostra casa che ci aspetta. Non mi sazierei mai di guardare. A destra, sotto di me, la pianura friulana violacea nella nebbia. Il mio orologio segna le quattro.
Giani Stuparich, da: La guerra del ‘15

*
Piero Jahier
Canto di marcia
Prima giornata di primavera. Giornata impegnativa.
Ora la stagione non potrà più tornare indietro.
È nato sole pulito e sano stamani.
E cresce sicuro, e s’infoca e vendicare la lunga angoscia invernale.
In questo suo giorno, quanta neve à colato! Solo più chiazze e lastroni che suonan vuoto al passo: già incavernati e minati.
E accanto all’ultimo bianco, i cittini alla ricerca del primo verde per insalata;
che lo dimenticano per il primo fiore;
fiore che dimenticheranno per tutti i fiori, che son tutti nuovi, che son tanti e tanti; che fan correre da uno all’altro colore;
che non c’entrano più nelle manine;
fiori tanti strappati con ansia; che però una lucertola sola basterà a far dimenticare;
finché sgusciano via piano piano − tutta la manciata − e diventan per terra le strisce di Puettino!
Onnipotente sole come fai dimenticare!
I morti son tutti sepolti.
E ha vinto l’anno chi ha vinto l’invernata.
Le case son tutte abbandonate.
Inutile casa di rifugio,
come sei triste e fumicata!
Ma noi sgomberiamo nel sole che ci rassicura;Uscite! − perché le frane son tutte colate
. è finita la vita scura…Tutto ubbidisce il potente sole felice.
I bucati arretrati che infestonan di bianco la collina.
I rami capovolti che squillano sulle siepi.
Fin l’aeroplano nemico, che non potrà farci male; ch’è una vespina gialla incantata lassù nel bagliore.
E le donne che lavoravano arcigne, a lume di luna, per guadagnare: che son questi visi accoglienti, che son queste mani immerse nel fosso con soddisfazione, che son queste voci chiare a salutare.
Ciascuno trova una sua famiglia, in questa umanità rasserenata che ci viene a incontrare.
. Alla testa della colonna
anch’io vado incontro alle donne, che sono di tutti, siccome noi soldati non abbiamo nessuno, e saluto: Sani, femmene: o il magnifico saluto!Nondimeno, siam passati attraverso la gioia con un pensiero riposto, noi alpini soldati.
Primavera; stagione di offensiva.
È venuta. Non potrà più tornare indietro.
Salutavamo tutto per l’ultima volta.
E mi è nato il «Canto di marcia» mentre salutavamo.L’angelo verderame che benedice la vallata
e nella nebbia ha tanto aspettato
è lui che stamani ha suonato adunata
è lui che ha annunziato:Uscite! perché la terra è riferma e sicura
traspare cielo alle crune dei campanili
e le montagne livide accendon rosa di benedizioneUscite! perché le frane son tutte colate
è finita la vita scura
e sulla panna di neve si posa il lampo arancioneIngommino le gemme,
rosseggino i broccoletti dell’uva
e tutti gli occhiolini dei fiori
riscoppino dal seccumeSi schiuda il bozzolo nero alla trave
e la farfalla tenera galleggi ancora sul fiato.Scotete nel vento il lenzolo malato
e risperate guarigione
scarcerate la bestia e l’aratro
e riprendete affezione.Uscite! perché la terra nera fuma tranquilla e sicura
ribrilla l’erba novellina
e sulla panna lontana riposa il lampo arancione.Allora siamo usciti anche noi alpini soldati
la triste fila nera che serra con rassegnazione
ma quando il sole ci ha toccati
una voce ha alzato canzone :chi ha chiesto alla rama di fiorire
e la zolla perché ha sgelato?
la cornacchia può restare o partire
e il cucú nessuno sa se ha cantato:la terra alla femmina, la patria al soldato
questa è l’ultima marcia e andiamo a morire.Ma perché siamo soli, perché partiamo
uscitel tutte le creature
ma perché siamo tristi, perché abbandoniamo
salutateci pure.Siate la nostra donna, siate i nostri figlioli
scesi per incontrare
siate la nostra terra, siate i nostri lavori:
uscite perché vi vogliamo amare.Vengano le spose: lavía, lasciate il pratino
L’erba seccherà sola, ma noni ripasserà l alpino.Splenda la falce pronta al fieno novo
e l’ultima nostra lepre sgroppi ancora dal covo.Vengano tutti i bambini: solo per vederli sgranare
nel viso tanto sudicio i vetri degli occhietti fini
solo per potergli rispondere quando chiamano: pare!Risuoni il zufolo fresco di selcio mondato
e la vena d’argento risbocchi dal nevato.Vengano i nonni stracchi, ma: no stè a passar ani,
vecio, fin quando no semo tornadi.
E vú. mare — Scusé e sani —Poi, quando saremo passati, non vi allontanate:
fateci un ricordo immenso, alzate le mani,
richiamateci con un gran grido
perché siete voi che non potete vestire.Allora — questa è l’ultima marcia —
ma non importa se andiamo a morire.
Quota 1016, Aprile.
(da: Piero Jahier, Con me e con gli alpini. Primo quaderno, «La Voce», 1920, pp. 101-108)
*
Luciano Folgore
Sveglia Sentinella
Sentinella notturna
lassù
taciturna
sopra la roccia scabra.
Vent’anni,
viso bianco,
occhi di fanciullo febbrile,
e la mano che stringe
il fucile;
e il pensiero che si perde
nell’immensità della notte.
Stanchezza di piombo
per tutte le membra
dopo un giorno di lotte.
Il sonno è d’intorno
morbidamente muto
come un tentatore velluto
che accarezza le palpebre.
Passano lembi di visione
dinanzi alle pupille
pesanti,
figure oscillanti,
profili sonnolenti,
tormenti di visi
che non si definiscono
mai.
Ecco i velari del sogno!
Troppo dolce dormire
anche su letti di pietra!
Gambe che s’abbandonano
sotto fardelli di torpore…
ma uno stormire d’abeti,
ma un fresco di vento
che palpita fra due’
capelli biondi,
snebbia un istante
la pesantezza accasciante
e un brivido di volontà
ridà
la rigidità
alla sagoma snella
di questa sentinella
della Patria.
Il nemico è là dietro.
Bisogna guardare,
bisogna ascoltare,
lucidamente.
Ma ancora il fumo del sonno
che monta.
Stelle filanti nei cieli,
veli di verde lontano,
pensieri e frammenti:
sua madre che veglia…
il pozzo
un singhiozzo…
quel compagno caduto…
con una palla in fronte…
due bimbi in un cortile
del paese…
un vaso di maggiorana…
e lei… lontana…
vestita di bianco…
fresca come una fontana…
Oh, finalmente!
Scalpiccii
rotolii di sassi
parole sconnesse;
bisbigli:
un altro prende il tuo posto
e tu che discendi a dormire
con un saluto all’Italia
laggiù.
*
Corrado Alvaro
A un compagno
Se dovrai scrivere alla mia casa,
Dio salvi mia madre e mio padre,
la tua lettera sarà creduta
mia e sarà benvenuta.
Così la morte entrerà
e il fratellino la festeggerà.
Non dire alla povera mamma
che io sia morto solo.
Dille che il suo figliolo
più grande, è morto con tanta
carne cristiana intorno.
Se dovrai scrivere alla mia casa,
Dio salvi mia madre e mio padre,
non vorranno sapere
se sono morto da forte.
Vorranno sapere se la morte
sia scesa improvvisamente.
Dì loro che la mia fronte
è stata bruciata là dove
mi baciavano, e che fu lieve
il colpo, che mi parve fosse
il bacio di tutte le sere.
Dì loro che avevo goduto
tanto prima di partire,
che non c’era segreto sconosciuto
che mi restasse a scoprire;
che avevo bevuto, bevuto
tanta acqua limpida, tanta,
e che avevo mangiato con letizia,
che andavo incontro al mio fato
quasi a cogliere una primizia
per addolcire il palato.
Dì loro che c’era gran sole
pel campo, e tanto grano
che mi pareva il mio piano;
che c’era tante cicale
che cantavano; e a mezzo giorno
pareva che noi stessimo a falciare,
con gioia, gli uomini intorno.
Dì loro che dopo la morte
è passato un gran carro
tutto quanto per me;
che un uomo, alzando il mio forte
petto, avea detto: Non c’è
uomo più bello preso dalla morte.
Che mi seppellirono con tanta
tanta carne di madri in compagnia
sotto un bosco d’ulivi
che non intristiscono mai;
che c’è vicina una via
ove passano i vivi
cantando con allegria.
Se dovrai scrivere alla mia casa,
Dio salvi mia madre e mio padre,
la tua lettera sarà creduta
mia e sarà benvenuta.
Così la morte entrerà
e il fratellino la festeggerà.
*
Giuseppe Ungaretti
da Il Porto Sepolto
.
Fase d’Oriente
Versa il 27 aprile 1916
.
Nel molle giro di un sorriso
ci sentiamo legare da un turbine
di germogli di desiderio
Ci vendemmia il sole
Chiudiamo gli occhi
per vedere nuotare in un lago
infinite promesse
Ci rinveniamo a marcare la terra
con questo corpo
che ora troppo ci pesa
.
.
In dormiveglia
Valloncello di Cima Quattro il 6 agosto 1916
.
Assisto la notte violentata
L’aria è crivellata
come una trina
dalle schioppettate
degli uomini
ritratti
nelle trincee
come le lumache nel loro guscio
Mi pare
che un affannato
nugolo di scalpellini
batta il lastricato
di pietra di lava
dalle mie strade
ed io l’ascolti
non vedendo
in dormiveglia
.
.
da La Guerre
. Militaires
. nous sommes tels qu’en automne sur l’arbre la
feuille
2 risposte a “La Grande Guerra: poesia in trincea”
L’ha ribloggato su RIDONDANZE.
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Mio nonno tornò dalla guerra e morì a causa delle ferite. Mio padre è cresciuto orfano.
sergio falcone
*
CONTRO TUTTE LE GUERRE, CONTRO TUTTI GLI ESERCITI.
*
“…E fa pena vedere sui grandi viali
tutti quei borghesi in festa;
se per loro la vita è rosea,
per noi non è la stessa cosa.
Invece di nascondersi, tutti quegli imboscati
farebbero meglio a scendere in trincea,
per difendere i loro averi; noi non abbiam nulla,
noialtri, poveri morti di fame.
Tutti i compagni son sepolti là
per difendere gli averi di quei signori.
Quelli coi soldi ritorneranno a casa
perché è per loro che noi si crepa.
Ma ora basta, perché i soldatini semplici
ora si metteranno in sciopero.
Sarà il vostro turno, grassi borghesi,
di salire sull’altopiano,
perché se volete la guerra
pagatela con la vostra pelle…”,
dalla Canzone di Craonne, Francia 1917
*
“Era partito per fare la guerra
per dare il suo aiuto alla sua terra
gli avevano dato le mostrine e le stelle
e il consiglio di vendere cara la pelle.
E quando gli dissero di andare avanti
troppo lontano si spinse a cercare la verità
ora che è morto la patria si gloria
d’un altro eroe alla memoria.
Ma lei che lo amava aspettava il ritorno
d’un soldato vivo, d’un eroe morto che ne farà
se accanto nel letto le è rimasta la gloria
d’una medaglia alla memoria”,
Luigi Tenco, La ballata dell’eroe
* * *
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