di Tommaso Di Dio, Carmen Gallo, Luciano Mazziotta
[Questa intervista è stata pubblicata nel numero 75 della rivista Atelier nell’ambito di un’indagine condotta da Tommaso Di Dio e Carmen Gallo sulle interferenze tra poesia e prosa. A proposito dello stesso argomento, inoltre, nella rivista compaiono i testi e le interviste a Simone Burratti, Jacopo Ramonda e Alessandro Broggi. Pubblico qui le mie risposte. lm]
1) Previsioni e lapsus è un libro che si cimenta con l’interpolazione di scritture in prosa e componimenti in versi, sebbene il registro della prosa sia piuttosto dominante in entrambe le forme. Qual è la definizione, se ti interessa fornirne una, del tipo di scrittura sul quale hai lavorato in questo libro? Quanto l’attenzione rivolta nel libro alla Storia pesa sulla scelta stilistica di raccontare in questo modo l’esperienza contemporanea?
Per quanto ogni autointerpretazione sia sempre falsata, collocherei Previsioni e lapsus nel genere letterario del “Prosimetro”. Non perché nell’idea di composizione del libro avessi l’obiettivo di inquadrarlo all’interno di un genere, ma perché il termine “prosimetro” mi pare quello più neutrale: si tratta di un libro che contiene versi e prose, e così si usa definire il prosimetro nella terminologia classica. D’altra parte, la stesura della silloge, quasi per successione di “frammenti”, ha fatto sì che ogni testo fosse necessario all’organizzazione complessiva, ma al contempo indipendente: in tal modo tanto le poesie quanto le prose hanno una loro intrinseca validità indipendentemente dalla struttura generale. A questo punto, una volta definita la materia nel suo complesso, mi sembra doveroso scendere nei particolari. Se è pur vero, come appare evidente dalla domanda, che tanto i testi in versi quanto i testi in prosa sono accomunati da una “tendenza prosastica”, i testi in versi si muovono pur sempre all’interno della metrica tradizionale, talvolta rispettata del tutto, talvolta invece falsata, come nel caso dei versi-gradino. Quando un verso sfora dagli schemi tradizionali ho utilizzato questa tecnica. Si tratta di ciò che in un articolo apparso su Poetarumsilva.com avevo chiamato “classicismo compulsivo”: l’endecasillabo, il novenario e il settenario sono i metri che ho utilizzato maggiormente, ma il loro statuto dipende dalla forza dell’enjambement, figura che mi ha sempre affascinato per le sue potenzialità di riprodurre le articolazioni spezzate del mondo. Immagino il verso come una modalità per creare un mondo caotico e frammentato, grazie alle continue cesure che si susseguono nel discorso; dall’altra parte, pur apparendo contraddittorio, l’uso dell’enjambement è nei testi in versi un mio modo di mettere in ordine il mondo – mio. Se una proposizione può essere, anche graficamente, spezzata, lo stesso accadrà per la realtà che la proposizione sta mostrando, dicendo o rappresentando. Una realtà che può essere spezzata, d’altro canto, può essere distinta (intendo sempre discernere, analizzzare, dal diaireo platonico) e dunque analizzata nel suo funzionamento più minuto. Tutto quello che ho detto serva come premessa per una affermazione: definirei le mie poesie “poesie razionali”, in quanto pretendono di “separare” il mondo e dunque di analizzarlo meglio. Chiaramente è una pretesa strozzata e per questo subentra sia un effetto talvolta ironico-straniante – nella ricezione, più che nell’intento – sia un continuum di accelerazioni e rallentamenti. Come quando si sta per arrivare al bersaglio (chiamo così: la rappresentazione del mondo “distinto e disunito”) ma ad un certo punto si devia e si prende la tangente (chiamo così: la consapevolezza di stare fingendo una razionalizzazione del mondo).
Per le prose il discorso è diverso e complementare. Mi piace pensare le prose di Previsioni e lapsus attraverso la definizione verghiana della scrittura verista: “la forma inerente al soggetto”, con la piccola sostituzione di “oggetto” a “soggetto”. La scrittura in prosa mi è sembrata più adatta alla rappresentazione di un mondo senza cesure, in cui tutto è “expanded cinema”, cinema espanso. Una scrittura che grazie alla non-esigenza di andare a capo e separare due o più elementi del discorso potesse dire in modo fluido, più caotico, una realtà in cui più piani dell’esperienza soggettiva – intesa sempre come soggetto-aperto-multiplo, benché sempre da un’esperienza personale si parta – si sovrappongono senza soluzione di continuità.
A questo proposito mi sento in dovere di discostarmi da un punto della domanda, un punto che non condivido, ovvero la scrittura della “Storia” con la s maiuscola.
La mia prosa, ed in particolare spero che questa sia la tendenza della poesia e della prosa contemporanea, cerca, in modo progettuale, di discostarsi dalla Storia, ovvero dalla macrostoria.
La mia scrittura, in prosa o in versi, non vuole rapportarsi con gli eventi ma con i fatti e i dati. Se, nella definizione wittgensteiniana, il mondo è tutto ciò che accade, le poesie e le prose, nel momento in cui sovrappongono più piani di soggettività e oggettività, di esterno ed interno, trattano gli eventi allo stesso livello “ontologico” dei fatti. Le prose di Previsioni e lapsus, così, prose perlopiù trattate nel “poema in prosa” maturità berlinese, utilizzano la storia della capitale europea come un pretesto per dire altro – e non al contrario – e collocano la grande storia del novecento di cui Berlino è emblema allo stesso livello gerarchico di bere una coca-cola, recarsi in un postribolo, aprire un ombrello in caso di pioggia.
2) Quali sono stati, se ce ne sono stati, i modelli o le personalità che hanno maggiormente influenzato questa scelta?
Dal punto di vista stilistico è innegabile una certa ammirazione da parte mia per la struttura della Vita nuova dantesca. Credo che la Vita nuova, infatti, nella dicotomia Dante-Petrarca, di cui aveva parlato Contini come “funzione” delle scritture novecentesche, stia esercitando una forte influenza, in generale, nella letteratura del nuovo secolo. In più, opere e autori fondamentali per la mia formazione sono stati il Timeo di Platone, il De rerum natura di Lucrezio, le prose di Beckett, le Città invisibili di Calvino, Il partito preso delle cose di Francis Ponge e La ballata di Rudi di Elio Pagliarani. Quanto al “contemporaneissimo” annovererei tra i maestri di genere il Commiato d’Andromeda di Andrea Inglese, i testi sparsi di Lettere nere di Andrea Raos, che avevo avuto la possibilità di leggere prima della pubblicazione; poi chiaramente Tecniche di basso livello di Gherardo Bortolotti. Benché possa sembrare strano, per concludere, un testo che mi ha mostrato i livelli di libertà del discorso che era possibile toccare attraverso la scrittura in prosa è stato Materiali di un’identità di Mario Benedetti.
Eppure mi piacerebbe andare più in là rispetto allo stile. In quanto, come dicevo prima, la scelta della prosa è la scelta di una forma inerente all’oggetto. Nella domanda precedente, in realtà, non avevo dato una definizione più precisa delle mie prose. Quelle, infatti, le chiamerei “prose quadrate”, dal momento che queste dovrebbero essere impaginate quasi a rappresentare un quadrato. Previsioni e lapsus del resto si apre e si chiude con due eserghi tratti dall’opera teorica di K. Malevic, autore che considerava il “quadrato” l’elemento fondamentale della pittura del nuovo millennio, “contro la dittatura del triangolo”. Se mio intento è nelle prose quello di creare un continuum spazio-narrativo in cui gli elementi non sono staccati da nulla, appunto neanche dall’enjambement che caratterizza i testi in versi, l’opera di Malevic con il suo quadrato nero è stato ciò che mi ha influenzato maggiormente nell’elaborazione di un concetto di “continuità assoluta”. Nell’opera di Malevic era l’immagine a non avere giunture e legamenti. In più, in un bel passo della sua opera teorica il pittore sosteneva di non voler più rappresentare nulla, come avevano fatto i pittori naturalisti o simbolisti. Il suo interesse era quello di creare un “nuovo oggetto” da gettare nel fiume continuo del cosmo; una nuova cosa da inserire nel flusso delle cose del mondo. Cosa tra le cose, per l’appunto. Credo che le nuove scritture in prosa da parte dei poeti non vogliano più rappresentare il mondo degli oggetti ma creare nuovi oggetti: è oggetto il libro tutto. E sono oggetti anche i testi contenuti al suo interno. Sempre Malevic diceva che la rappresentazione è una costrizione: si costringe l’oggetto rappresentato all’immobilità: cosa falsa di per sé, in quanto gli oggetti, specie se di origini naturalistiche, traggono la loro forza proprio dall’essere in perpetuo movimento. Non è difficile notare un ché di platonico in questa dichiarazione del pittore russo. Dove la rappresentazione diviene l’emblema della falsità della rappresentazione.
Chiaramente non voglio asserire una “maggiore sincerità” delle prose “quadrate” rispetto alle poesie. E chiaramente non ho alcun interesse a parlare di “sincerità” di un dettato poetico. Semplicemente il quadrato e la prosa quadrata mostrano più chiaramente, anche graficamente, la loro natura di oggetti e di fatti. Ritornando a Wittgenstein con Il mondo è la totalità di fatti, e dell’essere essi tutti i fatti, la prosa-quadrato proprio per la sua struttura finto -chiusa si presta maggiormente a essere emblema dei fatti.
3) Tradizionalmente, si è sempre fatto differenza tra la rappresentazione lirica della soggettività e la rappresentazione prosastica del mondo delle cose. In questa visione, la scelta della prosa va nella direzione di una maggiore rappresentazione del mondo delle cose. Qual è la relazione tra questa dicotomia e le tendenze riscontrabili nella poesia contemporanea?
Credo che nel contemporaneo la dicotomia soggettività/mondo-delle-cose sia stata superata da tempo, tanto nei testi in versi, definizione che preferisco per la poesia più che lirica, quanto nei testi in prosa. La poesia del resto non è tutta lirica: come è noto, questa tautologia si è venuta a creare solamente dopo i movimenti romantici europei, che, per di più, non hanno annullato del tutto la restante produzione poetica che non si relazionava con l’ “io” (pensiamo, proprio nell’Ottocento, a tutta la tradizione della novellistica in versi, che rigettava l’uso dell’ “io”, ma puntava più alla rappresentazione del “noi” come collettività). Alla definizione di lirica come espressione della soggettività, io sostituirei una concezione, pur sempre imprecisa, più pronominale: ovvero, lirico è quel testo in versi nel quale appare il pronome “io”. Cosa resta dunque della scissione tra lirica e prosa una volta definita la lirica solo a livello pronominale? Ben poco, in quanto le prose contemporanee si relazionano disinvoltamente con tutti i pronomi. Anche la prosa narrativa come espressione della terza persona singolare o del “noi” oggi viene meno. Tanto nelle prose scritte da autori che solitamente si cimentano nella poesia, tanto nella scrittura prosastica di “romanzieri” si presenta un alto tasso lirico e un alto tasso “finto-oggettivo”, ma un basso tasso figurativo. Si pensi ad esempio ai romanzi di Paolo Nori o a quelli di tutta la scuola “emiliana”, come Ermanno Cavazzoni, ed il capostipite Gianni Celati.
La differenza probabilmente consiste più che nell’oggetto della rappresentazione, nelle modalità della rappresentazione, intese come scelta della lingua e scelta del ritmo: utilizzare una scrittura in prosa – forse più per motivazioni inconsce, che per progettualità – permette, o si crede permetta, all’autore di attingere a più livelli della lingua. Significa, forse, innestare, maggiormente, nelle scritture senza enjambement, lessico e campi della realtà svincolati dal paradigma “lirico”.
Quanto al ritmo, credo che la prosa contemporanea si presti ad esprimere i tic della contemporaneità: si tratta di un ritmo, del resto, che va al di là della metrica – tradizionale o non-tradizionale -, ma che riesce a riprodurre le ossessioni del mondo moderno attraverso un bacino di figure retoriche e figure di suono diverse rispetto a quelle della scrittura in versi.
Ho in più l’impressione che la scrittura in prosa da parte dei poeti si configuri come tendenza all’indagine cognitiva in forma stocastica: girare con le frasi, farle roteare, svela con più precisione l’imprendibilità del moderno; dato un oggetto, la prosa, forse, è più propensa a circumnavigarlo ed a svelare l’impossibilità di colpire il bersaglio. A questo proposito mi vengono in mente tanto il Commiato da Andromeda di Andrea Inglese, quanto Tecniche di basso livello e Senza paragone di Gherardo Bortolotti. In tutti e tre i testi gli autori si cimentano a “far roteare la frase”, esprimendo, stilisticamente, tanto le mancanze della lingua, quanto le mancanze del pensiero. La prosa gira attorno – stocasticamente – al problema ed al contempo rivela che l’unica cosa che la lingua può fare è mostrare l’impossibilità di arrivare ad una conclusione (e ad una conoscenza).
4) Il pubblico della poesia e il pubblico del romanzo, soprattutto in Italia, restano due mondi poco osmotici. C’è, nella scelta (tua o di altri) di scrivere poesie in prosa , o prose poetiche, l’intenzione di superare l’idea della poesia come un genere per pochi eletti, e quindi il tentativo di rivolgersi a un pubblico più ampio, e meno – lettori compresi – specializzato?
Rispetto a questo quesito la mia risposta è secca. No, non credo che l’intenzione sia questa. Innanzitutto perché tutti gli autori che ho citato, per la gran parte, hanno come modelli non dei romanzieri, ma degli altri poeti che si cimentano nella prosa. In secondo luogo perché i poeti che scrivono in prosa cercano altre strade rispetto tanto alla lirica quanto al romanzo. Se pensiamo agli autori di Prosa in prosa o allo stesso, mio coetaneo, Jacopo Ramonda, con il suo bellissimo Una lunghissima rincorsa, si nota subito una presa di posizione contro la tautologia prosa-narrazione. Nel suo caso, ad esempio, i modelli sono costituiti da altri autori di prose brevi. Credo che il romanzo, non tutto chiaramente, ma una parte della tradizione romanzesca, specie quella che “attrae il pubblico”, lo faccia proprio alla luce della sua linearità. Se badiamo bene, anche nel caso del romanzo, osserviamo una strana proporzione: più esso si discosta dalla linearità, minore è il pubblico. È ciò che succede in ogni forma d’arte della “parola”, nel romanzo, nella poesia come nel teatro o nel cinema.
C’è pure dell’altro però. Non penso che gli autori (di letteratura in prosa, poesia, o romanzesca) si prefiggano l’idea di scrivere “per pochi eletti”. Purtroppo succede così, come è successo da secoli, da quando, più o meno, la letteratura non è più stata la rappresentazione delle gesta di una collettività, come nel caso dell’epos, in cui il pubblico non solo era fruitore ma “ispiratore”.
Le prose brevi, per di più, a primo impatto, sembrano lontane dalla poesia e lontane dal romanzo. La loro non-narratività le allontana dal romanzo. E la loro mancanza di enjambements le allontana dalla poesia. Credo che, alla luce di questa posizione di frontiera, il loro pubblico sarà sempre “il pubblico della poesia”, più smaliziato e pretenzioso, come recitava l’illustre poesia di Nanni Balestrini, ma anche più abituato alla complessità (e mi piace parlare di “abitudine” più che di “cultura” o “inclinazione”). Per il resto è forse sempre meglio non curarsi troppo del pubblico, in qualsiasi forma d’arte. Probabilmente questo è elitario ma non credo sia il pubblico a dover “chiedere” all’autore, e neppure il contrario. Autore e lettore collaborano non tanto alla comprensione del testo – la letteratura contemporanea ed in particolare la cognitive poetics ci hanno insegnato che non sempre un testo è decodificabile – quanto alla costruzione, ed alla decostruzione, della complessità del moderno, passando attraverso le intelaiature del testo scritto e fruito.
5) Come immagini il futuro della lirica e della prosa?
A questa domanda non so proprio rispondere. Mi auguro più che altro che la critica militante e la critica accademica comincino a dare più spazio nelle loro analisi al fenomeno dei blog letterari ed alle pubblicazioni su questi – un caso, che farà storia, ad esempio è stata la scoperta dell’opera di Luigi Di Ruscio. Lì è possibile “immaginare” e “provare a capire” quantomeno il presente. Forse la mia generazione ritornerà a dare importanza alla “struttura” ed al concetto di necessità all’interno di un libro di poesia. Ma potrebbe succedere di tutto. Il panorama è frastagliato e fare dei prognostici è davvero difficile.