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Classicismo compulsivo, cosologia ed epica condominiale – appunti di poetica (Luciano Mazziotta)

Classicismo compulsivo, cosologia ed epica condominiale – appunti di poetica (Luciano Mazziotta)

Nel De memoria et reminiscentia Arisotele sostiene che ogni prassi, ogni azione che compiamo resti “impressa”, quasi come un corpuscolo, nella nostra mente, trasformandosi col tempo in quell’epifenomeno chiamato “ricordo”. D’altra parte, famosa è la massima di Cartesio, secondo il quale “noi siamo ciò che ricordiamo”. Non so a cosa si riferisca Aristotele in questo passo e ho tanti sospetti nei confronti di Cartesio: ho però la certezza che le nostre azioni siano in gran parte non volontarie né tanto meno eclatanti. Muoviamo braccia, diciamo parole a caso e agiamo molto più spesso senza alcuna consapevolezza. Il cuore è un muscolo involontario e le ciglia sbattono quasi di nascosto. Per non parlare degli starnuti, del respiro di cui sappiamo dire qualcosa solo quando manca. Queste azioni non esistono eppure è la loro somma che crea una vita.
La linearità della memoria coatta non permette scivolamenti: e per questo bisogna interrogarsi tra l’immenso vuoto che separa Memoria e memoria. La maiuscola non è di poco conto. Un sistema condiviso come la Memoria non può che procedere per approssimazione, non può che escludere dal suo sistema ciò che il sistema stesso ha definito “trascurabile”.
[Ho voluto per un giorno oppormi a questa forma di anamnesi malata ma diffusa. Ho cercato di trascurare i mirabilia approssimati. Ho comprato un taccuino e ho deciso di annotare tutto ciò che componeva la mia giornata: un totale di 159 sbadigli, 97 stiracchiamenti, indefiniti movimenti delle mani che si aggiravano intorno ai 30-40 per secondo, senza contare i tremori nervosi. Ho mangiato più di tre volte ma purtroppo non sono riuscito a rilevare tutte le volte che ho sbattuto le ciglia. Ho chiamato una persona con un altro nome per 5 volte, pur non pensando all’altro nome, forse per una strana coincidenza che tra un morso alle labbra e un passo è diventata significante. A fine giornata ero così stanco, tanto stanco che mi sembrava di aver abitato un’altra dimensione: avrei ricordato per tutta la vita i miei sbadigli berlinesi di quel 12 Maggio 2011. Avrei ricordato quante volte ho scrocchiato le dita e quante chiamate ho ricevuto: 7 in totale più una chiamata senza risposta (in questo mi sono aiutato, certo, con la memoria del mio cellulare). Avrei stilato un catalogo di miniature dalla “virtù sconosciuta”.]
Se la Memoria ufficiale è una strada, un rettilineo lungo il quale si può sempre tornare indietro seguendo la catena degli eventi, risalendo ad un arché, la memoria mi si offriva come un “mosaico” di gesti incastrati e nascosti: è stata la mia scoperta archeologica nel caos idillico di Parkstrasse. La memoria mi assicurava che alcune tessere del mosaico sarebbero saltate e alcuni percorsi sarebbero stati incidentati, inserendo la caduta, il lapsus, come caratteristica naturale del catalogo dei dettagli trascurabili. La mia scoperta più grande quel giorno è stata la annotazione compulsiva: l’impossibilità di ricordare tutto, la necessità del vuoto, dei punti di fuga, delle buche. È dalla caduta in questi interstizi che poteva nascere quello che definirei Classicismo compulsivo, da non intendersi come “istintivo”. La compulsione è quello spazio non compatto creato dalla annotazione di “dettagli marginali” in cui, una volta scoperto il “margine”, si scava ancora più a fondo. Nell’inquietudine moderna di catalogazione di piccole imprese – ricordiamo per contro-esempio il II libro dell’Iliade che procede verso una direzione contraria – l’unica forza possibile è rifugiarsi nella forma. La forma è compulsiva perché svela l’ossessione di dare ordine, endecasillabico, al caos delle cose minime. Se dunque la memoria, da un punto di vista macrotestuale, dà origine al Classicismo compulsivo, nell’unità minima della poesia – così Lotman in “La struttura del testo poetico” definiva il verso – essa non può che manifestarsi come Cosologia, studio, disposizione della cosa.
L’attenzione per il particolare però si distingue tanto dall’enfasi che le poetiche barocche conferivano al “dettaglio”, deformandolo fino al paradosso, tanto dalle poetiche dell’oggetto del secondo novecento, studiate e promosse in prima istanza da Luciano Anceschi.
La modernità non può deformare ancora ciò che in realtà si è scoperto essere deformato di per sé, in quanto reperto conservato in pessimo stato. La cosa non è né deformata né simbolizzata come nelle poetiche dell’oggetto. La cosa non ha misteri ma viene inserita armonicamente nel tessuto del Classicismo compulsivo. Dal caos dei vuoti e dell’accumulo, dall’angoscia esistenziale e nevrotica di non poter annotare tutto, deriva la compulsione formale che nell’unità minima invece vuole generare un cosmo cosologico: lavatrici, scontrini, previsioni del tempo, borse di pensionati, calendari, potrebbero inserirsi nel discorso poetico senza alcuna “democrazia linguistica” o “degli oggetti”, senza intenzioni di “familiarità” o di “intimità”, non volendo tanto meno conferire un “valore in sé” alle cose. Le cose stanno lì solo perché esistono: ed in quanto “esistenti” possono fare parte di un discorso “mnemonico”. Se l’armonia cosologica può rassicurare, non saprei. So che le cose possono essere ricordate come può essere ricordata una battaglia, e nel lancio di un frigorifero da un balcone, nella conversazione in ascensore mi sono ritrovato a provare un senso di “meraviglia” (barocca e platonica allo stesso tempo) non inferiore rispetto all’osservazione dei grandi eventi storici. In questo e per questo rivendico una parità di diritto della cosa rispetto all’evento, tanto da poter la cosa stessa, una volta memorizzata, sia farsi “poesia civile” – in quanto parte di una città, di una polis, dunque cosa spazializzata – sia inserirsi a pieno titolo nell’immaginario collettivo, ed in quanto tale dare voce all’espressione poetica stessa della collettività: l’epos, l’epica.
Una delle caratteristiche dell’epica tradizionale era il suo svolgimento in luoghi aperti, in paesaggi e spazi ampli: era la quete del cavaliere che si muoveva, per l’appunto, alla ricerca di un oggetto particolare, di una donna, o semplicemente di se stesso. Tale aspetto in realtà si mantiene anche nell’epica novecentesca: La ragazza Carla si svolgeva a Milano così come La capitale del Nord di Giancarlo Majorino, e la dimensione della “strada” e della “quete” si manteneva anche ne La ballata di Rudi. L’epica della cosa è invece voce dei suppellettili che trovano il loro habitat naturale nella “casa”. Non è epica del domestico, perché il domestico prevede ancora i soggetti, e già in realtà La vita in versi di Giovanni Giudici rientrava pienamente all’interno di tale tendenza.
La strada, i paesaggi aperti erano gli spazi dell’epica tradizionale, la città lo è dell’ (anti)epica novecentesca – fatta eccezione per Pavese in cui domina ancora la campagna, ma è già epica nostalgica, del mondo perduto – la casa, gli interni lo sono dell’epica del domestico.
La voce della cosa, la cosologia e il Classicismo compulsivo si possono manifestare al contrario a livello strutturale come “Epica condominiale”. Gli spazi non sono solo quelli domestici, ma c’è una dialettica tra appartamenti, una comunicazione a distanza tra le cose di casa. La casa dà idea di un singolo abitante e di una sua identità e a volte una rassicurazione dalle minacce dell’esterno. Il condominio, l’epica condominiale invece non trova serenità, è tutta un vociferare di cimeli inutili in continuo contrasto tra di loro. Le voci non sono mai consolatorie, e gli oggetti non suscitano mistero e non sono “souvenir”, sono solo “bisbiglio” di qualcosa di disusato ed insensato.
La memoria trascurata e secondaria che si manifesta nell’unità “Poesia” in forma di Classicismo compulsivo, e dell’unità minima della poesia come “Cosologia”, trova la sua organizzazione in una silloge ed in un percorso esclusivamente come “Epica condominiale”, perché è “movimento” fittizio, “dialogo” cordiale e ipocrita e armonia coatta.

(Testi rispondenti o più o meno corrispondenti a questi intenti poetici si possono trovare su La dimora del tempo sospeso col titolo  Previsioni e lapsus)

9 risposte a “Classicismo compulsivo, cosologia ed epica condominiale – appunti di poetica (Luciano Mazziotta)”

  1. Bella immagine questa del condominio (penso anche al condominio di carne di Magrelli). Come se ci muovessimo dentro qualcosa di semiaperto: non una stanza, né una strada metropolitana, ma un “androne” tra dimensione privata e dimensione collettiva, tra soggettività (la volontà del gesto) e oggettività (la coscienza comune, la memoria collettiva – direi siamo quello che gli altri ricordano o dimenticano di noi). Come se la verità stia in più in quello che in modo inconscio trascuriamo, facciamo finta di non vedere inconsapevolmente e quindi non vediamo. Direi che – nell’era di internet, dei link, dei network, della condivisione assoluta – si stia manifestando anche in poesia la contraddizione di non saper vivere a pieno quello che potremmo chiamare lo “spazio comune”, uno spazio che si vorrebbe infinito ma chiuso. Come se il pianerottolo oggi avesse sostituito la piazza. Nel bene e nel male.

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  2. Il tuo commento, Giovanni, suscita molte osservazioni. Dammi un po’ di tempo, qualche giorno, e ti rispondo di sicuro. Semplicemente due parole su ” Come se il pianerottolo oggi avesse sostituito la piazza. Nel bene e nel male.”. Soprattutto nel ” Nel bene e nel male” si potrebbe intravedere una sorta di “rimpianto”. In realtà, nella poetica che vorrei edificare, il rimpianto, la nostalgia per “un mondo passato” dovrebbe venire neutralizzata, così come non il soggetto ma i soggetti interdialogici dovrebbero avere solamente la funzione di “organizzare le cose.” I miei appunti partono da un dato, soggettivo (la mia sensibilità, certo): la reificazione, cioè il processo che rende il “tutto” una “cosa” è avvenuta. Sono possibili dunque due strade, in letteratura-poesia – con o Senza trauma:
    il rimpianto del tempo in cui la cosa non era cosa ma altro, annesso alla tensione a riconferire un nuovo significato che resta comunque “represso” – e mi sembra che questo atteggiamento sia particolarmente presente (a parte che nei tuoi testi, o quantomeno in “Immaginate la ragazza” – e forse anche nella mia prima raccolta) in tutti gli autori antologizzati in La generazione entrante di Fantuzzi, in particolare Ruotolo e Ingenito, non a caso quest’ultimo – insieme a Fantuzzi e a Carlucci – strenuo sostenitore di un antiavanguardismo, antinichilismo che recupera sintagmi come “onestà del verso” (cfr. http://rebstein.wordpress.com/2011/09/23/lonesta-ritmica-del-silenzio/). Non a caso l’antologia di Fantuzzi esclude poetiche come quelle di Davidonics, Teti, Menicocci, e Simonelli (pur tanto diversi tra loro).
    Un’altra strada possibile è l’accettazione della reificazione e il compiacimento di questa condizione. Trovo questo aspetto molto presente per esempio nelle poesie di Marco Simonelli ed in generale nella tendenza che accetta compiaciuta la nuova condizione – benché nella forma MANIERISTICA che denota un’ansia, un’angoscia, la tendenza a dare forma alle cose almeno nel verso – e che organizza gli oggetti con il soggetto che talvolta si mette in disparte talvolta invece si cala tutto dentro la cosa, divenendo esso stesso prodotto, o meglio “prodotto di un prodotto”.
    Altro esempio di “cosologia” ed “epica condominiale”, in questo caso non compiaciuta però, ma neppure “nostalgica”, forse distaccata e ironica e non manieristica, potrebbe essere la produzione poetica di Inglese. Paolo Zublena per esempio parla di questa “dimensione interdialogica degli appartamenti” descritti da Inglese in materiali su Parigi pubblicati nell’ultimo numero del Verri e ancora nello stile di Inglese si può notare qualcosa di analogo: l’elenco, il catalogo.
    Spitzer, linguista studioso di Pulci e Rabelais, faceva notare che l’elenco in età umanistica è il “signum” del gusto per la parola che connota la letteratura di fine 400. In età barocca l’elenco invece faceva sì che venissero affiancate parole appartenenti a campi diversi sì da permettere al poeta di trovare “un punto di contatto” tra queste due sfere semantiche, svelare dunque, e suscitare meraviglia, come le cose, le più apparentemente differenti, si muovessero nel cosmo senza soluzione di continuità. Il catalogo di cose di Inglese invece è una tendenza a definire un campo, una cosa sola, che resta comunque insensato. La virgola tra una cosa e l’altra recide il punto di contatto che questi elementi dell’elenco potrebbero avere e al contempo scopre che tra le due cose c’è solamente il vuoto. Non mi sembra casuale che i suoi ultimi post su NI, a proposito dei rifacimenti del De rerum natura di Lucrezio, si chiamino Notorietà del vuoto, dove si implica una condizione ontologica dell’assenza.
    Chiaramente questo piccolo appunto non vuole essere una descrizione “oggettiva” della realtà letteraria del decennio. Sono solo appunti letterari che sto sviluppando senza pretese di normatività né di scientificità. Solamente riflessioni soggettive – quasi in forma di flusso dell’inconscio – su quello che leggo e su cui penso e pondero.
    So di essere stato poco chiaro e per questo tornerò a rispondere con più dettagli e materiali bibliografici (bastino per adesso i nomi che ho fatto cui aggiungerei la novella di Verga “Lacrymae rerum” contenuta in Per le vie, e il saggio di Francesco Orlando, Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura).

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  3. Grazie Luciano. Mi incuriosisce la possibilità di una poetica senza rimpianto o melanconia. In fondo per me la nostalgia (del presente, per dirla alla Borges) è una costante irrinunciabile. Non quindi la ricerca di un tempo (e di un significato) perduto, che si, sono d’accordo con te, porterebbe a una nevrosi repressa. Ma la ricerca di un presente (e di un significante) perduto, per me è invece importante. E se (per ricollegarmi alle tue riflessioni sui gesti involontari, sulle distrazioni o dimenticanze a cui allude “la necessità del vuoto, dei punti di fuga, delle buche”) le cose fossero, lo so è un’utopia, espressione di quell’inconscio sociale o addirittura politico di cui parlava Fredric Jameson, questo potrebbe voler dire che le cose non “stanno lì solo perché esistono”? Anch’io credo ci sia un “bisbiglio” di oggetti inutili, senza senso, “in continuo contrasto tra di loro” ma credo anche che in questo ci possa essere vero mistero, meraviglia, paura, pianto. Va bene l’ironia, il distacco, il tentativo di superare i traumi – anch’io a volte cedo alle lusinghe di un certo feticismo, all’autocompiacimento dei cataloghi – ma quando le virgole recidono i punti di contatto tra le cose, di quel vuoto che le separa (un vuoto tutto presente, necessario ma anche insensato) oggi non ci si stupisce più?

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