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Il morto del giorno, di Gianluca Merola

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Oh, sai chi è morto?
Se vivi a sud di Roma questa domanda non ti è nuova, sei abituato a sentirla almeno due volte al giorno.
Oh, sai chi è morto?
C’è sempre qualcuno che muore, non è una novità, eppure questa domanda rimbalza da una faccia all’altra provocando sempre un certo stupore. Un po’ come il punto G che tutte le volte è come la prima. Tornando a noi: la gente muore tutti i giorni, fatevene una cazzo di ragione. Amen. Il guaio è che questo necrologio quotidiano ha preso piede sulle pagine dei Social, con tanto di corsa a chi lo annuncia per primo, il morto del giorno:
Oh, hai visto è morto Tizio.
Lo so già.
Ah.
Eh.
Tutti a titillare lo sfintere del cadavere di turno. Non ha alcuna importanza l’averlo ignorato in vita, facendo in modo che morisse in povertà, quello che conta è slinguazzarsi la salma senza vergogna. Prendete Alda Merini, per esempio: avesse venduto un libro per ogni Ciao Alda ci manchi, non solo non sarebbe finita a fare colletta per pagarsi le cure prima di morire, ma sarebbe diventata ricca, molto ricca. La domanda, dunque, è: commemorare serve a qualcosa? Non serve a nulla; di prima, la mia risposta non può che essere questa.
L’altro ieri però mi è successa una cosa: sono entrato in un bar, ho chiesto una Vecchia Romagna e la barista mi ha detto: “Ma perché, nuova no”? Ho dato due capocciate al bancone, la sua battuta era così brutta, ma così brutta, che mi ha fatto ridere.
Forse, mi dico, con la necrofilia commemorativa potrebbe essere lo stesso: forse – e dico forse – che a qualcuno gli viene il prurito di tirare fuori due spicci per comprare un libro che non lo trovi all’autogrill e che dopo ti senti che ci hai capito qualcosa in più della vita. Lo so, il mio filo di fiducia nell’umanità mi rende patetico: col tempo me ne sono fatto una ragione e allora – mosso da questa piccola speranza e ringraziando la barista che m’ha fatto ridere – arrivo al sodo.
L’8 Aprile del 1979 (trentacinque anni fa esatti), nella stessa Virginia dove era stato sgravato ventisei anni prima, lo scrittore Breece Dexter John Pancake, faceva il botto a mezzo arma da fuoco. Si suicida, a quanto pare, lasciando in eredità dodici racconti e niente altro. Quattro anni dopo, viene fuori una raccolta che li contiene tutti: Trilobiti, questo il titolo. Ci sono voluti un altro po’ di anni prima che fosse pubblicato anche in Italia: ci ha pensato Isbn Edizioni. Se vi prenderete la briga di cercare qualche notizia sul web, ne leggerete di belle grosse: Joyce Carol Oates è tentata di paragonarlo a Hemingway; Vonnegut dice “Si tratta semplicemente dello scrittore più sincero che io abbia mai letto…”; Tom Waits ne parla come del suo scrittore preferito. Capisco che sia un modo come un altro per sottolinearne la grandezza, ma lasciatemelo dire: sono un sacco di cazzate. Non perché non sia un gran bel libro, ma perché in qualche modo ne intacca la purezza. Non so come spiegare questa cosa, né mi sforzerò di farlo, ma sento che in questo modo gli stiano facendo un torto. Prendete Hemingway: ha scritto delle cose potenti come Morte nel pomeriggio, ma anche schifezze come Il vecchio e il mare. E allora? E allora D’J Pancake non ha avuto il tempo di essere mediocre, credo che il torto stia in questo. So che dovrei dire qualcosa sui suoi racconti, di che parliamo se no, ma il punto è che non ho niente granché da dire a riguardo, se non bestie leggete Trilobiti. Fino a qualche anno fa tendevo a rimuovere i finali dei libri che leggevo, adesso sono peggiorato e dimentico istantaneamente tutto quello che leggo, dopo pochi giorni. E non che l’abbia letto più tardi di un mese fa. Manco sapevo della sua esistenza fino a quando, durante una presentazione del mio libro, me ne parlò il mio editore dando per scontato che l’avessi letto e facendo un improbabile accostamento tra me e D’J. Dicevo che non ricordo di cosa parlino i racconti di Trilobiti; quello che so, invece, è che da quando l’ho finito non riesco a scollarmelo di dosso: continuo ad aprirlo a caso e a leggerne qualche pezzo. C’è qualcosa di molto potente nella sua scrittura, mi è chiaro, ma lo è a un livello che non è quello estetico. È evidente che Pancake avesse una grande capacità di restituire i luoghi e le atmosfere, ma ci sono molti scrittori che riescono a farlo allo stesso modo. Cos’è che lo rende speciale, allora? L’unica risposta che mi viene in mente è: la sua disperata sincerità. Una specie di predestinazione alla quale non avrebbe potuto sottrarsi in alcun modo; condannato a essere sincero come il protagonista di un brutto film comico americano di cui, per fortuna, non ricordo il nome.
Se non appartenete alla categoria di quelli che comprano solo i libri che hanno vinto di recente una bottiglia di liquore allo zafferano, può darsi che ve ne innamoriate; in caso contrario potreste trovare noiosi dodici racconti che hanno per protagonisti dei working class heroes poco eroici e totalmente calati nella realtà della provincia americana, fatta di Impala del ’66 da rimettere in sesto, Pontiac, fucili da caccia e sangue raggrumato sulle nocche delle dita. Pancake non farà nulla per piacervi, perché la sua scrittura non concede niente al lettore. Per la stessa ragione, non farà nulla per dispiacervi. Si limita a essere se stesso e lo fa in una maniera invidiabile.
Di sicuro, in qualità di morto sparato, D’J non vi deluderà in futuro. Mi ritorna in mente una frase di Giuseppe Pontiggia (che con Pancake c’entra come il latte nella birra): “Lo scrittore morto è immortale”. Se un giorno parlerete di Pancake a qualcuno, come adesso sto facendo io con voi, nessuno potrà dirvi va bene, ma il suo secondo il libro fa schifo.
Non è mica un vantaggio da poco, questo.

Trilobiti. I dodici racconti di un grande scrittore.
Pancake Breece D’J, 2010, Isbn Edizioni.
Euro 9,00.

© Gianluca Merola

4 risposte a “Il morto del giorno, di Gianluca Merola”

  1. Ho letto il libro due o tre anni fa, quei racconti non li ho mai più dimenticati. Grazie a Gianluca Merola per questo splendido pezzo.

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