ritorno
I.
l’arrivo non discostava dal cliché: freni, vapore
qualcuno che dice città all’addensarsi di luci al neon
poco sopra l’inizio del sogno — dove ad aspettarti
vieilles femmes recroquevillées aux cheveux gras:
mostravano visi nel lutto del dagherrotipo, non sconosciuti
ma dove si perdeva l’eco che solo dispersi
di qualche guerra diceva? eppure si ferma il treno, si dice ritorno
ancora in un luogo mai più veduto prima
II.
ombre di metà estate ad ogni curva, rami presi
a tradimento dal controluce dei fari — a passi
impercettibili vanno nella notte adolescente
nel buio che li confonde e disegna il manico dello Sten…
ma appena il desiderio di seguirli che un tornante, e ancora
ombre intrecciarsi, confondersi tra le piante e riaffiorare
di nuovi ribelli che scortino il nostro andare
da qualche parte laggiù dovrebbe essere la città
o c’era nell’annodarsi di neon e strade
che a perdifiato nell’indistinto rugliare portavano
verso la morte chi è morto e ancora non sa —
ora non c’è che il buio dalle colline di Savignano
spalle alla notte e il mondo così lontano, ma cos’è mai questa tua vertigine
che fuggiamo va mormorando a ritroso nel tempo
e già muta il passo ritorna alla furibonda carriera del cervo?
* * *
la valigia e il nome
I.
la morte si misura al rimanente — non ai visi
né alle mani il lutto che s’incontrano veloci e poi spariscono
(colombe imprigionate in una notte d’abiti lunghi)
di chi a sopravvivere in fretta un equilibrio lo ritrova:
ma agli oggetti che vivono a lungo in un’immanenza di reliquie,
al vuoto che sta attorno e che sta ad altri raccontare.
così la valigia su cui, con scrittura da anziano —
Gazzotti Giacomo tu che lo fosti per poco prima del male
II.
altri la usarono poi — o fu prima a credere al gioco:
lui fuggiva la morte di Nin da cui non un fiore, ma a maggio
esecuzioni sommarie alla Teléfonica. lui si chiamava
Marco, ma in scena dicevano tutti guarda il Chaqueta Negra.
il viso adolescente nella notte misurava
a lungo il rischio di una nazionale senza filtro
di quelle che m’han detto tu fumavi, molto prima
che io nascessi, nervosamente, fino a morirne
III.
oggi chissà, forse come gli altri avresti detto che non c’era
scelta, una storia tra le altre da cacciatore:
l’arma contro il fianco, l’abitudine a rinascere ogni giorno
farsi sguardo puro nella notte come fa la sarabìga — e l’altro nome
con cui t’ho conosciuto e molti altri (ma fu prima che la lapide
svelasse quell’imbroglio dell’anagrafe) doverselo
conquistare a ferro e fame, oggi è un’eredità che brucia
ancora dei tuoi vent’anni a raccontarla: nome di battaglia Nello
* * *
isole Cassiteridi
I.
la pioggia ci sorprese appena fuori dal ventre ci avvolse
odore di freni e notte d’autostazione: la prima
immagine d’Avignone fu una rinascita per acqua
di noi inesperti, del vento che a sparigliare —
nemmeno il respiro bastava alla corsa in hotel —
le nostre vite, la forma dei sogni creando
inesplorati mondi nel vortice nuovo dei nostri corpi
II.
vedemmo elementi intrecciarsi, il polmone marino
che dicono i geografi limiti il mondo del nord
caos primigenio che scherma il mondo di sopra dal nostro —
ma vento colmava la vela delle lenzuola nel mattino
gli sguardi s’inebriavano sopra al mare color del vino
voltandosi altrove se mai la città sprofondava
nei visi consumati, nell’abitudine dei mercanti…
III.
così imparammo a leggere tra le squame
del fiume Oceano il segno della marea lungo i nostri corpi
a perdersi e nuovamente scoprirsi per giorni
vasti come millenni (ma svaporava
il sogno ed il relitto che avremmo veduto al Jardin des Vestiges
era forse pretesto ad una nuova partenza, nient’altro
che cenni di saluto lungo i moli del mattino)
* * *
da tempo vado notando questo: la tua mano, per quanto leggera
nel tempo ha scavato nella mia la propria forma, come l’acqua sotterranea
che incide di sé la parte nascosta del mondo, diventando peso e misura
d’ogni altra mano che adesso stringo — così, se pure volessi smettere di amarti
ci penserebbe il corpo a conservare il segno del tuo passaggio su questa terra:
così la materia cieca ti amerebbe ancora tra molti anni
quand’anche reso polvere il fiume d’amore, fossili i nostri corpi
* * *
ricordi quella notte a San Gimignano?
non eri più che un’immagine, nella tenda della luna
andavi perdendo peso, allontanandoti da me
ogni tuo gesto pareva mi invitasse in un altrove
a cui tu, umana e già nient’altro più d’un soffio
a guardia di una frontiera inaccessibile parevi
respingere e al contempo mi invitavi sui tuoi passi, a attraversare
*
Massimiliano Aravecchia è nato nel 1983. Laureato in letteratura francese, svolge attualmente un dottorato in French Studies presso la Western Ontario University (Canada). Segnalato o premiato in diversi concorsi (tra cui il concorso “Il lago verde”, il premio “Renato Giorgi” e il premio “Guido Gozzano”), ha letto i suoi versi qua e là in giro per l’Emilia Romagna. Una breve scelta di componimenti è apparsa sulla sulla rivista “Le voci della luna” nel luglio del 2009. Questo è il suo primo libro.
* Massimiliano Aravecchia, La valigia e il nome. Prefazione di Guido Mattia Gallerani, L’arcolaio, 2012.
◊
◊

2 risposte a “Cinque poesie da “La valigia e il nome” di Massimiliano Aravecchia (L’arcolaio, 2012)”
Non mi capita mai di fare commenti sui blog che leggo, ma in questo caso faccio un’eccezione, perche’ il blog merita davvero e voglio scriverlo a chiare lettere.
"Mi piace""Mi piace"
grazie Claudia. da tutta la redazione
"Mi piace""Mi piace"