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Terza stazione

Di SONIA CAPOROSSI

La mia pelle
Guaina di carne
Sensazioni fluidificate
È composta dal miracolo
Dei suoi strati – arcobaleno
Specchio infranto e disagiato
Di sostanza immateriale
Ciò che noi ricchi mortali
Conosciamo sordamente
Come scudo antidolore
che desquama
tristemente
nell’orrore

La mia bocca
Scoria di biacca
Sensazioni negative
Mi ricorda quanto il senso
Nel mio atteggiamento orale
Colga affranto l’argomento
Come sulle braci accese
Della scelta innaturale
Di una corsa circolare
Dalle tappe stabilite
Fuori gara

Mentre leggi queste righe
mio lettore irrigidito
Un calore si diffonde
Sbalordito
Sulla punta delle dita
Nel carteggio ancora informe
Di quest’altra mia ferita
Che riporto con l’inchiostro
E la fatica
Nella comunione immensa
Della vita e della morte
Delta in piena e inondazione
Del mio limo sacrificale
Straripato
E fecondato
Su pianure di poesia
Dove smista ormai gli umori
Nelle linfe stomacali
della fame
la mia voglia di chiarirmi
queste dissimulazioni
Americane

Cieco il mondo, bieca la terra
Tutti quanti giù per terra
Con le chiappe penzoloni
In bislacca sodomia
Universale
Quando il buono è andato a male
Quando il verso è un po’ diverso
Sperimentalismo a fiotti
E vende bene
Se descrive nell’inchiostro
Il suo liquame
Come sperma insterilito
Da un incancrenito male
Quando il crampo istintuale
E pertinace
Ci costringe a questa pace
Fallocentrica ostentata
Ci restringe nell’ingorgo
Della pia pederastia
Pasoliniana
Ci rapprende nella lacrima incrostata
Di una merda letteraria
Paludata
Perché ormai cristallizzata
Dall’attesa di un lettore ormai sovrano
Che non chiede che Bestemmia
Nell’oscenità borghese
Come pruderia cristiana
Che contenta spia dal buco
Del confessionale
Gli atti impuri di una strenna di Natale

I poetucoli uraniani
Si rigenerano a frotte
Ogni due generazioni
Scandalizzano il candore menzognero
Del lettore
Come sagome impiccate
Alla croce di un dolore
Scompagnato
Dalla pia definizione
Del peccato
Temporale e scritto in versi
Mitizzato nella gloria
Di una macera macelleria
Perpetrata su quel corpo
Il più famoso!
Come mai cristificato
Dallo stesso mio peccato
E peccato è che sia un Mito
Ma tant’è, ciò è poco male
Scandaloso è, in quella vece
Che oggi resti inorridito
Dalla pessima fattura d’ogni verso
chi non l’ebbe mai capito
O chi l’ama e troppo sa
Per non sapere che ha fallito

Ed infatti, è tutto dire
C’è chi sbanca ormai a milioni
Copie su copie di ribaltatura
Mette all’asta in paperbacks
La Scrittevole Scrittura
Perché il tema è ormai usuale
Perché va tanto di moda
Perché in mezzo alle mutande gli fa broda
Io, per Dio!, No, io non spero
Di potere liquidare questo male
A peso d’oro
Io non spero, beninteso
Di passare per l’Artista del Perdono
Che coi versi maledice
La sua sordida umanità
E poi passa il bussolotto
Alla cassa della stampa
Quindicesima edizione
In filigrana
Quanto l’arte è diventata una puttana

Ma peccato era davvero
E della carne!
Se mi è lecito tornare
A parlare un po’ di me
Non potevo non descriverne
Su una carta riciclata
Dalla mia lingua persiana
nella forma dell’informe
Quanto m’ero asessuata
Priva d’innamoramento
Per gli artisti in Fila Indiana
La phronesis reclutata
Nell’esercito di un Dio
Senza nessun sacramento
Che m’aveva sottomesso
Al pagamento parcellare
Di una tassa d’apatia
Emozionale
Che m’aveva in breve imposto
Che io non potevo amare
Fra poeti dottorali
E prosaica clientelare
Se non chi era a me diverso
Nell’affinità elettiva
Rinnegata
Di una pagina di lacrime imbrattata
Nello scarabocchio infame
Che imponeva
L’acrimonia del mio verso
Registrato penna, carta e calamaio
Negli inferni dopo cena

Nella laica crudeltà
D’esser diversa
La mia infamia era la solita
Minestra
Sempre amara come il fiele
Angelicata
Nell’imago di qualsiasi penna
Amata
Cenobitico eremita
Nel vaneggio di qualsiasi imago
Odiata
La variante filologica invariata
La scrittura intestardita
Dalla lena
Di esercizi in stile libero
Con la palla e la catena
Quando volli, e troppo volli
Inventare un filosofema
(“critichezza impura”, dici?
Suona bene, suona bene!
A ogni colpo ricevuto
Sbattezziamo questa pena
Criticando chi è di scena)

E qual’era la materia?
La mia bocca già taceva
Già la pelle rifiutava
Un contatto d’altri tempi
D’altri testi in selezione
Che nell’estasi arrecava
Lo sbadiglio del lettore
(“Corpo a corpo con l’autore”
Quanto ingenuo il mio Blanchot!)
Senza le certezze ambite
Rimanevo come cera
Raffreddata nel mio clima
Iperbarico e ostentato
Da galera
Come poi io descrivevo
Con parole insanguinate
Nel moleskine spaginato
Ogni sera

Questo il senso di un dolore
Senza pece e senza piume
Senza ammenda sacrificale
Senza pepe e senza sale
Che neanche ormai nel pianto
Ritrovava il suo calore
Nell’errore
Di non stare ormai a mio agio
In un mondo virtuale
In cui scrivere fa male
Con le credenziali a timbro
Quando il nome sulla carta
Non risponde al proprio volto
Sullo specchio
Nel ribrezzo rattrappito
D’infecondo smadonnare
Un rimprovero autoindotto
Nel riflettersi plantare
E salutare
Di un bandito genuflesso
Che chiedeva un pio perdono
Per null’altro che se stesso

Che lettore avrebbe retto?
Chi m’avrebbe sollevato
Fra le braccia ormai slogate
Dalla croce?
Quale boria avrebbe attinto
Dalle spine sulla fronte
Il rammarico marchiato
Di un Savinio Ermafrodito
Indesiderato
Assente
(Ché a me i reading fanno schifo
E non amo poi la gente)
Alfred Prufrock indigente
Che cercava solamente
Di sparire
Per recar meno fastidio
Nel rimario letterario
Al coacervo universale?
“Posso osare? Debbo osare?”
Che voleva solamente
Un po’ morire
Cosa affatto non dissimile
Al martirio luterano
Del suo male radicale?

Questo ed altro io scrivevo
Imbrattando quella carta
Come un Werther lusinghiero
Quando altri già vendevano caciotte
Al conclave letterario
Frutto infame di quel caglio nero inchiostro
Come arte a posteriori
Ché il cliente ha sempre ragione
In un tempo ormai a pigione
E di fronte al quieto e timido sollazzo
Di un’editoria massone
Per le masse
Alla fine io chi sono
Se non scrivo a provvigione
Come un autore da strapazzo
Come troppi poeti del cazzo
Che della propria erezione
Di profilo
Fanno ostento a schiena china?
Alla fine, ribadisco
Io chi sono
Rispetto a loro
Se non un Cristo troppo sincero
E chi mai, se dico il vero
Mi darà voce?

* Poesia tratta dalla silloge inedita in fieri Stazioni della Croce.

 

 

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4 risposte a “Terza stazione”

  1. Un testo molto denso e interessante, anche nella forma, che ha suscitato in me una grande curiosità per le altre stazioni, precedenti e successive. Mi pare di leggere qui un pezzo importante di biografia (una stazione della croce, appunto) che ha a che vedere con la dimensione intellettuale e culturale, strettamente intrecciata con il senso della propria identità. Ho immaginato sulla scena un’adolescente alle prese con i canoni collettivi incontrati anche nelle sue letture precoci e l’insoddisfazione di fronte alle tante, troppe distorsioni nelle risposte al suo bisogno di capire e di esprimersi nella propria individualità, nella propria diversità e unicità. E doloroso è l’incontro con un mondo nel quale anche gli artisti strumentalizzano la propria umanità per scopi di successo e guadagno; doloroso è prendere atto di “quanto l’arte è diventata una puttana”. Da quel dolore deriva una sorta di “apatia emozionale”, che è il prezzo pagato a un “dio senza sacramenti”, che offre tuttavia accesso a una phronesis, una saggezza che non riconosce nessuna “cristificazione” e anzi la sottopone al vaglio di una “critichezza impura”: “a ogni colpo ricevuto /sbattezziamo questa pena/ criticando chi è di scena”. Ma questo dis-agio che sembra tradursi in un “infecondo smadonnare” alimenta altro dolore perché “chi m’avrebbe sollevato/fra le braccia ormai slogate/della croce?”. Quella croce già portata “quando altri già vendevano caciotte/al conclave letterario”, e qui non mancano riferimenti espliciti all’editoria e alle sue logiche perverse, cui troppi soggiacciono. E infine la domanda che probabilmente annuncia la prossima stazione: “Io chi sono/rispetto a loro/se non un Cristo troppo sincero/ e chi mai, se dico il vero/mi darà voce?”, una domanda che si pone chiunque voglia in primo luogo rimanere fedele a se stesso.

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  2. la bellezza ha un destino: lo scheletro. il pericolo dello sperimentalismo: diventare eiaculazione solipsistica. la luna nera del lettore: l’essere un sovrano incatenato allo scranno del pop-nulla. l’arte: povera cool-troia truccata, autoimputtanitasi per viltà e paura. quindici edizioni non fanno una pubblicazione. cara sonia caporossi, aiutaci a percorrere tutte le stazioni della croce. continua così. grazie. idolo

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