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Mariasole Ariot – poesie

Esili

I muri cantano
quando l’animale trema.

S’incontrano la Persona e il testimone, e lei s’inclina.

Le piega le spalle  un ferma-testa,
con le tenaglie separa il grigio dal grigio,
costringe ad un deserto.

-Piacciono ai denti
le parole dure, durano
le cose morte-

E i muri che cedono all’incanto
pesano la memoria ad ore.

Solo i pesci morti si salvano dal fondo: la testa non si mangia
né si avanza, l’origine
si frana nella forma.

***

Sulle foglie ruvide

L’asfalto non ha braccia eppure annoda,
ci buca nelle mani
a difesa della luce.

Indistinti barcolliamo nella folla.
L’uno dorme, l’altro piove
io mi accascio al tichettio.

Di luogo in luogo, di roccia che ritira, la strada
si sminuzza nel suo opposto: sulle secche la goccia non si arena
e voi vi separate
e noi ci separiamo.

Nel sogno vi schiudete ancora svegli
afferrati corpo a corpo come foglie
nel giardino dei mancini non c’è vento
e dove l’altro è già l’inverso
dove io non è più io, divento l’altro.

***

L’urgenza è ora, la parola è ora

Dove il nodo ripara
il vento cancella e non raduna.

Di silenzio in silenzio scardina
di bianco si avventa in verticale.

Al primo piano un volto afferra
……..-e il cielo si fa lento: la penombra è il mio artificio.

L’esilio che non sono e che già sono,
di esilio mi condanno alla parola.

20 risposte a “Mariasole Ariot – poesie”

  1. C’è un’atmosfera rarefatta che incanta, e nel silenzio si avverte il movimento del pensiero. Bellissime le immagini e le sentenze. Una in particolare mi ha colpita: “Piacciono ai denti/le parole dure, durano/le cose morte”.
    Grazie.

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  2. sono proprio contento di queste poesie di Mariasole, mi piace moltissimo la sua maniera di scrivere, il modo di creare immagini, come e dove non l’aspetti. Di tagliare il campo con la luce, improvvisamente.

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  3. Grazie a voi, davvero, e a te Gianni, che ogni tanto vieni a stanarmi (che io, come ben sapete, vivo sotto terra in un buco pieno di uova di ragno).

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  4. leggo e in ogni poesia c’è uno squarcio, un abisso di buio e luce, dove “la penombra è il mio artificio”, ed è proprio lì che ci porti, in quell’artificio.

    nella prima poesia disegni una scena:

    I muri cantano
    quando l’animale trema.

    S’incontrano la Persona e il testimone, e lei s’inclina.

    nonostante la crudezza della scena, la componente musicale è così forte da muovere gli elementi come in una danza, che si popola di una serie di immagini e figure, i pesci ad esempio,che devo aver già letto tra le tue righe, “i pesci senza testa” se non ricordo male (ma andrò a verificare)
    Un dato descrittivo che mi colpisce subito e che sembra presente in tutte le sequenze che descrivi, è l’assenza di vento (insieme al giardino dei mancini – potentissima immagine), forse perché vivo – mio malgrado – in un vento perenne e non so immaginarla l’assenza di vento, per cui su questo dato mi fermo un po’ di più, fino a quando non ne colgo l’assenza di respiro nell’artificio della penombra, dunque mi dico: eccolo l’esilio! tema comune ai testi, quello che chiamo “la cifra dello scarto, il rifiuto”. Non mi resta allora che sedermi nel tuo artificio, lasciando che le immagini comincino a girare nella penombra, finché l’artificio si fa chiaro tutto intorno alla sedia, intorno al collo: i muri cantano le tue proiezioni, sono spezzoni di film in serie e ruotano la stanza come un carillon che non lascia spazio alla consolazione. Eccola, “la condanna all’esilio” è una ruota, una giostra, un gatto che s’insegue nella coda: tutt’altro che un gesto di chiusura – mi dico -, semmai un cingere/confinare le cose, le parole, le immagini, i giochi di luce tutto intorno, intorno a te, ma ancora di più, intorno a chi ti legge:

    L’esilio che non sono e che già sono,
    di esilio mi condanno alla parola.

    Poi questi versi, Sole, che trascrivo qui alla fine, beh… questi sono la meraviglia della marginalità, la cruda dolcezza dell’essere inverso, si leggono a fiato trattenuto (senza vento) e non saprei cosa aggiungere perché sono tutto

    Nel sogno vi schiudete ancora svegli
    afferrati corpo a corpo come foglie
    nel giardino dei mancini non c’è vento
    e dove l’altro è già l’inverso
    dove io non è più io, divento l’altro.

    e la cosa più chiara alla fine di tutta la lettura, è che volente o nolente, condanni chi ti legge alla parola, alla tua parola, ed è una condanna, Sole, che val la pena scontare.

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  5. @Natalia, che dire? Sapere che qualcuno (ti) legge così a fondo, negli interstizi, nelle pieghe delle parole e oltre la parola stessa, lascia un senso di stupore, e meraviglia. Il grazie è implicito, ma lo esplicito comunque.Grazie.

    @maurizio manzo…quel punto è un punto d’inquietudine?

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  6. Nel sogno vi schiudete ancora svegli
    afferrati corpo a corpo come foglie
    nel giardino dei mancini non c’è vento
    e dove l’altro è già l’inverso
    dove io non è più io, divento l’altro.

    bellissime tutte. impressionata (da giovane lettrice di poesia) da questa!

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  7. Mi piacciono queste poesie, in particolare le prime due, e mi piace anche il buco pieno di uova di ragno, bella immagine per una scelta abitativa in cui mi ritrovo abbastanza. (Io sto in una spelonca petrigna dove ogni tanto un crotalo passa a trovarmi per il tè delle cinque).

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  8. Mi sono piaciute queste poesie, in particolare le prime due, e bello anche il buco pieno di uova di ragno, scelta abitativa in cui mi ritrovo abbastanza. (Io sto in una spelonca petrigna e ogni tanto passa a trovarmi un crotalo per il tè delle cinque).

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