– Nie wieder Zensur in der Kunst –
Lella De Marchi
La spugna
(Raffaelli Editore – Rimini – 2010)
*** *** ***
A quante associazioni mentali concrete o metaforiche si presta la spugna, sottratta al proprio habitat naturale e divenuta oggetto prosaico del quotidiano? Lasciata invece nelle acque del mare, essa rimane ciò che è giusto che sia: un organismo strutturato e vivente. Un essere che il destino, smembrandolo all’infinito, può far viaggiare sull’onda impetuosa delle correnti. (Un po’ come le spore aeree del soffione). Infine le particelle sanno ricomporsi nell’antico corpo, o almeno germogliano in nuove vite pronte a loro volta a ricostituire la ciclicità dell’esistenza.
Come la spugna, «cosa tra le cose», è l’essere umano. Come la sorte della spugna è la vita dell’uomo, fatta di ferite, frammentazioni, traumi, dispersioni. Spesso questo «viaggio» verso l’ignoto nasce dal rifiuto di sé, da domande che qui si pongono a più riprese: «qual è il punto esatto in cui tutto comincia?», «che cos’è la sostanza delle cose?»; oltre che dalla coscienza della fragilità, dell’astrattezza, delle contraddizioni dell’essere («sono ambivalente, / non ho sempre lo stesso significato»). Oppure anche soltanto dal gusto o dall’ebbrezza dell’abbandono.
Sorgono allora sentimenti di sdoppiamento, di moltiplicazione e di sovrapposizione («mi sono fermata / un attimo a pensare poi sono ripartita / con la vita di qualcun altro addosso»); scaturisce, nell’avventura mentale, il senso incontrovertibile dello straniamento. Tra il fare e il dis-fare, tra la frammentazione e la ricostituzione delle cose si estende lo spazio vuoto ed enigmatico delle antinomie che si cercano e si sfuggono: di ciò che è e di ciò che non è («non sono piena», «non sono vuota»), di ciò che vive dentro la nitidezza delle linee e ciò che è imprecisato; di quello che è ruvido e poroso, e di quello che è liscio e dolce ai sensi; delle cose leggere e insieme pesanti, della vicinanza e della lontananza, del colorito e dello sbiadito, del concreto e dell’astratto.
Ma poi, ecco il miracolo, la vita – che è nebbia e «grande nulla che avanza» – è anche capacità di rimettere insieme, facendole consistere, le cose, di moltiplicare le cellule dell’esistenza, di ricomporre insomma, rinverginandolo, l’organismo […] (dalla prefazione di Renato Martinoni).
Selezione di testi
ruvido
tutto è ruvido intorno a noi, proprio
tutto, almeno tutto ciò che esiste
o sembra esistere è ruvido, almeno
tutto ciò che può consistere è ruvido.
tutte le superfici su cui piovono
i riflessi delle cose e si diffondono
e toccano gli oggetti sono ruvide, tutti
gli oggetti sovraesposti per un balzo
dei riflessi, traditi dentro a un balzo
dei riflessi, sono ruvidi.
tutti i corpi sono ruvidi, ruvidi
naturalmente,
anche il tuo corpo nudo così di fronte
al mio non è liscio è ruvido,
il migliore dei ruvidi possibili
per me, persino questa carta se riesce
finché riesce a trattenere un po’
d’inchiostro per un po’, per rispedirlo
chissà dove dopo un po’, non è liscia,
è ruvida, perché tutto ciò che è liscio,
scivola via e non lascia traccia.
e non esiste, e non consiste
*
magari l’esistenza
a volte non mi sento molto dissimile
da un concetto astratto, da una linea
retta spezzata o curva, da un punto
geometrico fissato nello spazio,
un’equazione un’operazione
matematica un segno messo a caso
anche a matita sulla carta per dimostrare
qualche cosa, magari l’esistenza,
confrontata paragonata messa in parallelo,
anche così esisto, come una cosa tra le cose
*
figura
la figura che guardo improvvisa
mi toglie le tempie e gli occhi si disfano
dal presente, si fanno altri occhi
altri luoghi altri punti verso cui
indirizzare gli sguardi già persi
la figura che guardo cambia
il colore, cambia la luce
e le gradazioni, perde il confine
mentre la guardo, tenta la fuga,
la figura che guardo non vuole
per sempre restare dentro al mio sguardo
il fine di tutto questo guardare
è trovare sconcerto, uno choc del tempo
dentro lo spazio, è cercarmi per sempre
in qualcosa di altro, un’immagine
ultima, la figura più vera,
sopra cui ritornare a cercarmi
ancora una volta senza fermarmi?
*
il disegno sotteso
dilaniata a volte la carne privata,
per tanti motivi diversi, anche
dell’anima adesso mi mostra le ossa
e nuda tutta la sua spugnosa struttura,
il disegno sotteso, il marchio per primo
impresso nell’osso dell’anca
o della tibia, ma è solo per poco,
perché presto ritorno a sentirmi,
magari un brandello un brano
una parte, perché presto ritorno a cercare
la carne, qualcosa che leghi il mio stato
ad un altro, non posso restare senza
quell’altro, dilaniata a volte
la carne privata anche dell’anima
adesso mi mostra le ossa
e nuda tutta la sua spugnosa struttura
*
persino il mio corpo
temporaneo avvenente tornante persino
il mio corpo dallo spazio tenuto sospeso
illeso si flette in pose svariate dettate
dal vento, e talvolta persino il mio corpo
nel vento si posa e dove si posa rimane
la sua domanda di terra per sempre
come un punto che intorno a se stesso
nel tempo e lo spazio infiniti senza sosta
e mai pago s’interroga intorno a se stesso
Versi suadenti, dal diktat ritmato, pervasi da una volontà persuasiva e insieme discreta.
Una poetica a metà tra l’areale e il sospeso, campionata e scansionata per sequenze interrogative.
Qui la “cosa” diventa un “qualcosa”, ovvero: l’indefinibile che batte le strade della sua dispersione.
Ma nella dispersione permane come una traccia.
Forse sarebbe più appropriato dire una scia in cui le particelle lavorano su una continua ri-configurazione.
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Grazie, Enzo. Molto felice ed onorata di ri-configurarmi qui.
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