– Nie wieder Zensur in der Kunst –
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Il clima di festa ci ha separati.
La mamma in visone contempla
ceramiche e vasi di vetro smaltati.
Altrove mio padre rimira
cravatte sgargianti.
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È stato un momento, uno dei tanti,
un attimo afflitto distratto.
Mi sono fermato davanti all’orsetto
più candido e bianco di tutta la Standa.
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Aveva quegli occhi da bravo bambino
gli stessi di quel Coccolino
che dall’anno scorso non dorme con me.
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Me l’aveva preso la mamma
col concorso a punti dell’ammorbidente
ma era ridotto un cencio indecente:
non era più adatto a un bambino grande.
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Non ho pannolino,
indosso mutande.
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Scosso da un pianto convulso a sussulti:
mi fanno paura gli adulti, i più alti.
Non sanno il valore dei nostri balocchi,
invecchiano e muoiono e pensano ai soldi
ti lasciano solo, ti fanno sentire un inetto.
Ma un orsacchiotto è per sempre
riempie il contatto d’affetto
con te firma un patto
per l’eternità.
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Un orsacchiotto non è
come mamma e papà.
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È stato un momento, un pianto, un lamento
doveva accadere.
Mi ha ritrovato un magazziniere.
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Leptocephalus brevirostris
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Quando, venendo dal capoluogo sfrecci lungo la Firenze-Mare
lo vedi chiaramente azzurro nella valle dal cavalcavia;
dopo la galleria ti salta addosso al parabrezza
e per un attimo ci credi, che sia davvero il mare.
Sul lago, Puccini passò la sua vecchiaia.
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Accadde quando ancora l’epoca rampante riscopriva
i piatti regionali con la degustazione d’un gourmet,
cibo povero di quando la famiglia non poteva
permettersi la carne ad ogni pasto.
Dice l’Artusi che i cuccioli d’anguilla
sono foglie d’oleandro trasparenti come il vetro:
la borsa spermatica del maschio è simile all’ovario della femmina
e migrano nei laghi per una metamorfosi.
Aspirano l’h anche quaggiù, le chiamano “le ciehe”.
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Da giorni ne parlavano, gli adulti,
scambiandosi al telefono un codice segreto;
ce l’avrebbe fatta, dunque, il pesciaiolo – quel pirata –
a procurare l’illegale bottino d’ambizione
e poco male se quel fiero pasto costava allora
poco meno d’un milione: le anguille appena nate
sono prelibate.
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Mio padre sul cancello coi contanti
aspettava il pusher pesciaiolo
con l’ansia d’un drogato in astinenza.
In un sacchetto d’acqua, brulicanti,
molli e trasparenti s’agitavano a migliaia – girini ancora vivi –
guidate da un interno istinto inutile oramai,
proprio come spermatiche creature che già sanno
dove andare per trasformarsi in altro.
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Sul setaccio schizzarono frenetiche,
inquieti murenoidi all’oscuro della situazione.
Mia madre versò una goccia d’acqua
sull’enorme padella prestata da un’amica:
sfrigolando evaporò dopo un momento.
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Sui crostini fatte pappa, nella pasta lunga come condimento
insieme a poca scorza dell’arancia e poi limone:
durante la cottura quell’agonia dell’olio caldo le tramuta,
sbiancandole le allunga e a colpo d’occhio non sapresti
distinguere le larve da un piatto di bavette.
Tranne forse per quegli occhi, minuscoli puntini
ad un’ estremità dello spaghetto, neri come
se la luce in un istante fosse implosa.
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Non era pepe ma uno sguardo
che non implora più.
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Epicedio
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All’ombra dei fanciulli che bulli ci fiorivano dappresso
abbuiati dai Cure e dai Bauhaus, soundtrack dei giorni insieme
se n’andava la speme a farsi benedire. Soffrire non serviva:
lasciva quella morte c’attirava, e bastava ascoltarla
commerciale in cassette duplicate, lasciarla musicale
che fosse look per intellettualoidi liceali e depressi come noi.
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La tua professoressa di latino t’incrinava il destino con i tre.
Io e te eravamo gli scemi del villaggio.
Nel paesaggio due semi intestarditi insieme impollinati
e l’unico sbocciare fu solo nei capelli colorati,
fu solamente nelle pelli bianche; in due su un motorino
o al giardino dove fumavamo, facendo sega a scuola.
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Adesso vola solamente il ricordare, per te che stai col Corvo,
le fasce stile Brandon Lee del non sopravvissuto, stormi d’uccelli neri,
che ieri c’era da mandare a mente quel brano dei Sepolcri che non so.
Ma oggi no: ti porto in lutto dark, con thanatos e con eros,
metamorfosi d’Ovidio, compagno adolescente.
In modo differente ci trasformammo in niente.
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Spiaggia Libera
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La variante Aurelia srotola la strada: siamo nello sciame,
magliette, ciabatte, stampate fantasie multicolori, un fluorescente
succhiare di Calippo; domenica, c’è il sole, tutti quanti
quantificano all’aria la pelle nuda ancora da ustionare.
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Passeremo svoltando la pineta, sicuri di trovarti ancora lì.
Il tuo tipo è uno che respira: una faccia da schiaffi, tatuato,
efebico oppure ipertricotico, lo strepitoso fascino
dell’ultracinquantenne in piena forma. E dopo le dune l’orizzonte.
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Sei fissa in una fascia Gucci bianca intera, sei Liz Taylor,
la Circe più abbronzata e bionda tinta della costa.
Anna, minaccia ancora la nostra ingenuità. Hai quarant’anni.
Distesa sul tuo telo rosa fuxia circòndati di giovani,
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più giovane tu di quella giovane che vinse l’anno scorso
lo sponsorizzato concorso di Miss Trans.
Stenderemo intorno al tuo gli asciugamani, riprenderai la storia
di un autunno che chirurgicamente tu non senti:
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ricevi a casa adesso, eppure nei dintorni ci passi volentieri,
saluti le tue amiche, ci racconti di un’età lontana quando eri
a Livorno ragazzino e non ancora Towanda la Guerriera.
E poi siliconati impianti e mai avvenute evirazioni.
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Quando dalla base americana sfrecciavano le reclute
i rangers, per te tutti marines: tutta salute all’epoca del dollaro!
Limpidi guanti: l’Aurelia a Migliarino, Marina di Vecchiano.
Avevi una roulotte. Passavi avanti a tutte per un salario serio.
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Adesso puoi permetterti di scegliere: estrogeni, lunga transizione –
l’hai letto sul tuo corpo che l’uomo da solo si spaventa.
I tuoi contanti dentro al portafoglio proteggono il domani
dall’incerto precariato. L’hai sudato, questo apprendistato.
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Gli uomini sono come dei gattini, non devi accarezzarli contropelo
si rischia il graffio, un taglio involontario e curati di te
e solo dopo curati di loro: passa i polpastrelli dietro al collo,
le loro fusa spasmi, un lamentarsi al caldo del sudore.
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A mezzogiorno pranzi col ghiacciolo, dagli ambulanti compri
braccialetti di filo colorato, ad ogni nodo un desiderio:
gli amici, dimagrire, i conoscenti: pochi ma leali.
Verrai da noi a cena. Arriverai col sugo per la pasta.
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All’una un’altra lucky strike, assisti alla sfilata:
abbronzati si scrutano bagnandosi i piedi alla battigia,
l’incendio dei costumi. Sono mimmi
nei giorni di vacanza, non sai se in salvo o in saldo.
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Da quando l’hai rivisto non fai che ripensarci.
Ricordi come pianse quando seppe; il suo corpo tremava
scoraggiato ti disse che eri bella come una regina,
Si guardava peloso il ventre piatto. Gli estrogeni erano impossibili.
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La resina s’appiccica sui corpi, è stato come un pianto
Li vedi ritornare, riconsideri il sorriso, il pomeriggio
scroscia in chiacchiericcio, sei raggiante, la tua socialità
dimentica imprevisti e probabili armatori vedovi da poco.
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L’amore equo e solidale lo impareremo dopo.
Diana cacciatrice: sei come Salomè con il battista,
l’esperienza ti ha insegnato a fischiare agli stalloni
come fossi un camionista.
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Adesso ti slanci, una corsa di cerbiatto e spruzzi il mare
le onde che affronti in pieno petto ti spostano il costume,
mostri il seno e per pudore abbassiamo tutti gli occhi,
e tu ci guardi come quelli che restano all’asciutto.
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Marco Simonelli è nato nel 1979, a Firenze, dove vive. Lavora come traduttore. Ha pubblicato il racconto in versi Memorie di un casamento ferroviere del ‘66 (1998), il poemetto drammatico Sesto Sebastian – Trittico per scampata peste (2004), Palinsesti (2007) e Will-24 sonetti (2009). www.marcosimonelli.net
Bei versi, molti mi hanno riportato ad un tempo che purtroppo non mi appartiene più. Complimenti
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Ciao Gianluca, grazie. Il tema (se un tema, fra tanti, c’è, in questi testi) è esattamente il tempo (non saprei dirti se perduto, sprecato o ritrovato). La contrapposizione di due tempi, almeno: un prima e un dopo. Ma non dico cosa li distingue. Vorrei che fosse il fruitore a immaginarlo.
Grazie a Natàlia per averli postati e alla silva tutta per ospitarli.
xxx
m.
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Grazie a te, Marco, e a Gianluca. Sono d’accordo quando dici che debba essere il fruitore a rintracciare o, semplicemente, immaginare la linea di demarcazione tra il prima e il dopo; giacché sono convinta che la poesia non vada mai spiegata e che debba invece mantenere integra la possibilità di essere le mille diverse letture che calzano a pennello le vite di chi legge.
E’ stato un piacere ospitarti, con un a presto.
n.
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