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L’osceno

osceno

Per i Greci, osceno era ciò che non si doveva mettere in scena, perché truculento, eccessivo agli occhi e quindi per la mente: stupri, ammazzamenti, violenze. In teatro poteva occuparsene tutt’al più il Coro, che sapeva riferire al pubblico con parole adeguate, volte a simbolizzare la ferocia di quanto avvenuto, appunto, fuori scena. La proiezione dell’antico è dunque questa, se riconduciamo il termine “osceno” alla skené greca, la scaena latina, forma principale di obscaenus; una proiezione che sempre e una volta di più oggi torna a insegnarci, interrogandoci.
Nei tempi che viviamo mettersi al riparo dall’oscenità pare non sia più possibile. Le leggi dell’audience televisiva, in una tendenza al delirio che è giornalistica in genere, impongono volentieri ai teleutenti e ai lettori dei quotidiani online l’esibizione di un bambino nell’atto di giustiziare un prigioniero inginocchiato, o un killer incappucciato in quello di tagliare la testa a una persona terrorizzata in tunica arancione, o ancora un uomo barbaramente consumato dal rogo… Sono soltanto esempi recenti. Si dirà: dovere della cronaca. Si dirà: è la verità. Non è così, invece. Certo, di fronte a fatti di entità tale, eclatanti, sconvolgenti, questo “dovere” sembra avere ragion d’essere nel mostrare le cose così come sono, nude e crude. Altrimenti la nostra mente chissà – qualcuno potrebbe aggiungere – immaginerebbe di più o di meno, in ogni caso diversamente, e la realtà ne risulterebbe deformata.
Ma appunto, non è così, soprattutto se ricolleghiamo lo stesso meccanismo a qualcosa certamente di peggiore rispetto ai casi citati, perché meno necessario e urgente da riferire al pubblico, cioè l’ingorgo di speculazione che si sprigiona dalla cronaca spicciola dell’efferatezza, come ne fossimo tutti affamati, sempre ansiosi di ingoiarla e ingoiandola di restarvi imprigionati.
Rinati come sempre dall’antico, oggi in maschere a tinte spesso tristi, corriamo il rischio di restare imbrigliati nelle cose, di per sé inconsistenti. Cose, che possono essere oggetti, vicende, “eventi”: tutta un’ordinaria, piccola histoire événementielle sembra imprigionarci nella clausura asfittica dei fatti, quando oggettivare se stessi nelle cose si fa una tentazione irresistibile, e diciamo pure una tendenza in voga tra le “poetiche” odierne.
Se per alcuni quindi deve dominare “il dovere di informare”, senz’altro a noi tocca il dovere di mandar giù tutto (e torna in mente Zanzotto: «… in questo progresso scorsoio / non so se vengo ingoiato / o se ingoio»). Ed è così che tutto si nutre – è il caso di dirlo – di un’intenzionalità particolarmente velenosa, quella di replicare all’infinito una specie di gara in cui vince chi mostra più orrori in diretta, ben consapevoli che, scomodando Proust, nel meccanismo delle nostre emozioni l’immagine è l’unico elemento essenziale.
È vero, le immagini passeggiano nei nostri occhi, dritte verso la mente, ma il problema è l’assenza di analogia, se siamo solamente nella condizione di subirle. Pensiamo a Auden ne La Mano del Tintore, 1961: «l’uomo è un animale che procede per analogia». E allarghiamo di qui il pensiero, riportiamolo a Eliot, in The Rock, 1934: «Dov’è la saggezza che abbiamo / Perso nella conoscenza? / Dov’è la conoscenza che abbiamo / Perso nell’informazione?». Possiamo conoscere solo costruendole noi le immagini, rendendo visibile ciò che è invisibile – dando così vita, per paradosso e diciamo quasi per errore, proprio all’osceno, portato finalmente in scena – ma solo, questo è il punto, rielaborato dall’intuito della nostra mente, soltanto se la nostra memoria si rende capace di collegarlo coi giusti nessi al semplice accadere dei fatti.
Tornando ora per un attimo all’etimo, se consideriamo che “osceno” si fa anche e principalmente derivare dal latino “obscēnus”, cioè “di malaugurio”, e scavando sempre sul fondo delle parole troviamo che “augurio” contiene in sé non soltanto il senso di un presagio, ma anche il significato di “far crescere”, “aumentare”, si capisce bene – seguendo la direzione di quanto qui s’intende affermare – come a crescere sia, angoscia per angoscia, un cumulo inerte di cose subite per immagini.
Analogia, allegoria e trasfigurazione occorrono sempre, per simbolizzare. Indotti a privarci di questa vera necessità, la nostra visione si sfascia, anzi forse nemmeno è tale, perché senza forma, composizione, e allora non può che essere un mero sovraccarico, un’orgia di immagini insopportabile.
Dovremmo finalmente ammettere che lo vogliamo, il silenzio, il silenzio degli occhi, e che vorremmo tornasse a consegnarci enigmi, cari alla nostra immaginazione. Silenzio, il filtro dei nostri occhi, per osservare, probabilmente, più che guardare. E forse finalmente capire, conoscere.

Cristiano Poletti

Nota: ringrazio l’amico Beppe Bettani, cui devo lo spunto per questa riflessione e al quale soprattutto le parole iniziali di questo articolo appartengono.