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Volevo fare qualcosa di diverso insieme a Istvàn

Di Giammarco di Biase

 

Ho atteso giorni prima di scrivere di Flesh.
Non ero mai pronto, non sono mai stato così poco pronto di fronte ad un’opera, Nella carne (Adelphi), e forse non sono pronto neanche adesso. Oggi mi viene in mente che è difficile parlare di David Szalay senza ripetere ciò che è stato detto dalla critica mondiale. Dopo
Tutto quello che è un uomo e Turbolenza, volevo fare qualcosa di diverso insieme a Istvàn, il protagonista del suo ultimo libro (sarebbe comunque ripetersi di fronte all’enorme successo di queste pagine).

Istvàn è un adolescente ungherese: lo seguiamo in presa diretta all’inizio della narrazione mentre è in compagnia di sua madre, quando aiuta la sua vicina di casa col marito cardiopatico a fare la spesa di giorno in giorno per qualche spicciolo. Donna matura che accenderà i sensori, aprirà la strada di un’educazione sessuale prematura e violenta, prima mostrandosi timida per il languore di un bacio poi temeraria nel sottometterlo col suo corpo scalzo, virulento, avanti negli anni, affacciato alle rughe e ai vissuti. Istvàn si convertirà all’improprio, al linguaggio univoco della violenza e, forse, dell’amore.

 

 

Sterminati letti e sipari insieme ad un “femminile” che sognerà dapprima con sospetto e subito dopo con necessità appagante. È tutto un passare di ore, di tempi morti, di spazi poveri fino a quando non arriverà la passione malintesa dell’adolescenza, un orgasmo ad uncino, che stramazza il cuore fino a disossarlo. Si ferma qui, il cuore del personaggio di David Szalay mischiato agli umori della dirimpettaia, sua maestra di sconfitta. Umori che segneranno tutti il resto della sua esistenza e del suo rapporto con le donne. Il tragitto, così, diventa ambiguo, sleale come un sacrificio, fino a portarlo a Londra dopo alcune peripezie sorde, nere, scarnate.


Come sta Istvàn? Cosa pensa Istvàn?
Cosa avrà in sorte?


Nella carne è un romanzo anti-psicologico, non risponde alle nostre domande, non sa dirci, anzi non osa dirci cosa scuote tutti i personaggi del libro. Li racconta in maniera realista come spinti da un lessico inaderente, che non tocca mai le nostre corde, inespressivo. Ecco che i dialoghi sono di strategia, fitti, quasi come una sceneggiatura (perché cos’altro è Nella carne se non una sceneggiatura magniloquente?), Istvàn si muove nella ricchezza e nel potere, nella violenza con l’abilità del muto; è un dispositivo del tempo, egli stesso è tempo: è l’ora che viviamo, i minuti triturati in avanti. Proprio grazie a questo forse sarà considerato il più grande romanzo storico del secolo: ma storico perché? Per la fitta rete di spostamenti tematici dove lo stesso tema è svuotato, slacciato dal sangue della richiesta: “Ma Istvàn tu, dico tu, come stai?”.  Tutto passa, si evolve come seguendo un destino, un cerchio.

Il cerchio sì, quello dei grandi romanzi storici o dei grandi gialli che non sono altro che lo scheletro, la bozza, la partitura del genere ante litteram. Penso ai Buddenbrook di Thomas Mann, al Theodoros di Mircea Cărtărescu, penso a La caduta degli dei di Visconti, ma anche ai tratti biografici dell’ultimo film Netflix Train Dreams, al Limonov di Carrère, o addirittura all’ultima discesa affettiva nel Jay Kelly di Noah Baumbach. Cos’hanno tutti in comune? Non il rifiuto della psicologia ma l’ascesa e la discesa, il ritorno alla base, l’effetto piramidale o questa famosa geometria che attraversa gli eventi catturati dai media, dai giornali, dalla stampa: la storia che ripassa la lezione come una lente morta, fantasma delle sorti di ogni uomo. Siamo lontani dalla guerra o dai conflitti, dalla pura battaglia…ma non sarà mica solo su questo che si basano tutti i romanzi storici? I capitoli di questo capolavoro si illuminano uno dopo l’altro, aprendosi e richiudendosi tra un paragrafo e l’altro come sipari ereditati dai grandi racconti di Alice Munro. È proprio in questi movimenti di apertura e chiusura, negli interstizi apparentemente “assenti”, che filtrano brandelli di vissuto, storie non scritte e mai storicizzate, lasciate deliberatamente in sospensione.
Alla fine di
“Nella carne” non è necessario convertire l’esperienza di Istvàn ad una comprensione necessaria. Anzi, è necessariamente ontologico per lo scrittore non dirigerci ad una spiegazione o dare al protagonista dello sconfitto o vittorioso.
La morale, l’interpretazione sospenderebbero il realismo di queste pagine magnifiche e la sua magia di impalcature dentro la vita di un corpo che sembra avere solo un unico  padrone invisibile: il destino. 

 


In copertina: Artwork by Toyen

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