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Infinite quest – I Millennial, la provincia e le dipendenze: dialogo con Giulia Scomazzon

Rubrica a cura di Giulia Bocchio

 

Domanda e risposta: due entità complementari, eppure l’una genera l’altra, in un interscambio potenzialmente infinito, mai esausto, mai uguale a se stesso. La sintesi dell’incontro, il binomio preferito della conoscenza. E della curiosità.
“Intervista” è solo il nome che ne racchiude l’atto e l’intenzione ma, in questa rubrica, protagonista sarà il dialogo – l’incontro – lo scambio. 
Esseri umani che hanno una visione e che si sono imbattuti nel proprio labirinto personale. Perdersi significa anche attraversarlo. E magari raccontarlo.

Creatività, arte, progetti, riflessioni, esperienze e uno sguardo rivolto al futuro, in quell’orizzonte  magnetico che è la parola.

 

 


8.6 gradi di separazione (nottetempo), è il nuovo romanzo di Giulia Scomazzon ed è molto diverso dal memoir La paura ferisce come un coltello arrugginito con il quale l’abbiamo conosciuta, anche se immutata è la scorrevolezza della sua scrittura, una scorrevolezza che attraversa in maniera sorprendentemente naturale temi difficili da rielaborare, come le dipendenze, la vita in provincia, le relazioni disfunzionali, la rabbia e, non ultima, l’autoironia che affiora fra le righe dei disastri esistenziali di noi Millennial, che siamo una generazione nostalgica e un po’ in frantumi. Non poteva che essere così vista la spaccatura nella quale siamo nate e nati: da una parte l’estetica anni Novanta, che sembrava un mondo permanente e inscalfibile (quando in realtà scricchiolava parecchio, ma con gli occhi dell’infanzia è un abisso non facile da cogliere), dall’altra l’avvento della tecnologia che ha completamente plasmato i nostri già precari rapporti sociali.

Seguendo questa scia – in questo romanzo, e in questa conversazione – Giulia Scomazzon ci guida attraverso la genesi complessa della sua protagonista, Alice, dalle sue incarnazioni iniziali come detective noir fuori tempo o antropologa contemporanea fino alla sua forma definitiva. Ci parla di come l’ironia sia il vero meccanismo di autoconservazione del personaggio, di come le relazioni rappresentino per questa protagonista una forma di economia affettiva piuttosto che una regressione nostalgica, di come il rifiuto della terapia tradizionale sia in realtà un tentativo di posizionamento esistenziale che rifugge le etichette diagnostiche.

 


 

Giulia Bocchio: Giulia, bentrovata. Leggendo il tuo romanzo, 8.6 gradi di separazione, non ho potuto fare a meno di visualizzarlo da un punto di vista stilistico: la costruzione di Alice è, a suo modo, una lezione di scrittura, non solo perché è una prima persona singolare che occupa tutto il respiro della narrazione, ma perché con il suo disequilibrio emotivo e fisico diventa paradossalmente l’equilibrio stesso della storia. L’instabilità è struttura, e quando si scrive non è un affare così scontato. Come nasce l’idea di questo personaggio?

Giulia Scomazzon: Per una decina di anni, sulla scorta della mia passione per il cinema di non-fiction, ho osservato con curiosità documentaristica l’umanità che popola i bar tabacchi delle periferie venete. Come Alice, ho spesso frequentato questi luoghi da sola. Quando tornavo a casa appuntavo su un quaderno gli stralci delle conversazione e le interazioni non verbali che mi avevano più colpito, poi tracciavo piccole mappe con linee e cerchi per capire graficamente come individui, coppie e gruppi si attraessero o si respingessero in quegli spazi. Per tantissimo tempo non sono riuscita a capire che cosa avrei potuto fare con quegli appunti voyeuristici e disordinati e mi sono arresa all’idea che si trattasse solo di un hobby bizzarro, un birdwatching umano a tempo perso.
Prima di nascere, Alice è stata uno zigote prodotto dall’incontro tra i miei appunti oziosi e la proposta di Nottetempo di scrivere un nuovo libro dopo il memoir del 2023. A partire da quel momento, è iniziato il suo complesso sviluppo embrionale. Per un po’ è stata una lente attraverso cui osservare l’ebbrezza e la miseria di quel mondo, un personaggio narrato in terza persona che funzionava come contrappunto – per età, genere, e livello d’istruzione – degli avventori di quei luoghi – in maggioranza maschi pensionati e lavoratori stranieri. Prima di diventare un dato psicologico o, meglio, un tratto esistenziale, la dipendenza della protagonista è stata una scelta formale: lo sguardo di Alice doveva, in una certa misura, assumere la deformazione del mondo che raccontava e agire come una lente anamorfica per proiettarla. In questa fase iniziale, Alice è stata un insieme di fantasie sfocate: una beatnik e una detective noir fuori tempo, un’antropologa o una giornalista contemporanea. Per vederla davvero, non come un aggregato di archetipi letterari, ma come uno stile singolare, sono dovuta passare alla prima persona. Questo mi ha permesso di immedesimarmi in lei e di modulare la sua voce autoriflessiva e ironica. L’instabilità a cui ti riferisci credo sia la conseguenza necessaria di questo percorso tortuoso, delle crisi e degli avanzamenti che hanno segnato dal principio la scrittura.

G.B.:  Alcolismo, uso di sostanze, farmaci e una provincia veneta che fa da sfondo al vuoto interiore della protagonista. Per sua stessa ammissione Alice non è troppo interessata al deterioramento dei suoi organi interni, ma non c’è dell’autocompiacimento nei suoi atti, solo un bisogno di sedare in qualche disperato modo il dolore, la solitudine, l’inettitudine direi… E questa inettitudine è un’interferenza costante tra ciò che accade e ciò che la protagonista pensa mentre accade: una simultaneità che crea un secondo livello narrativo, spesso più rivelatore degli eventi stessi. E quindi empatizziamo con lei. Quanto era importante lavorare su questa doppia traiettoria, il fatto e il pensiero del fatto, per dare alla sua voce una caratterizzazione così stratificata?

G.S.: Lavorare sulla doppia traiettoria, tra l’evento e il suo pensiero, è stato centrale fin dall’inizio. È lì che si costruisce la personalità della protagonista, la sua autocoscienza ironica e ruminante. Alice soffre di un eccesso di pensiero in tempo reale che le impedisce di aderire in maniera immediata alla realtà; in altre parole, non riesce mai a sentirsi dentro gli eventi o le relazioni. Ciò dipende, a un livello superficiale e immediato, dal suo consumo continuativo ed eccessivo di alcolici e tranquillanti, ma su un piano più profondo questa frizione tra esperienza e interpretazione è il prodotto del suo terrore di confondersi o perdersi nell’altro. C’è un indicibile nel romanzo (un lutto gravissimo a cui la protagonista dedica solo un rapido accenno) che per me è il fiume carsico che scorre sotto la paralisi del personaggio. Ho immaginato che in quel trauma Alice fosse stata squarciata dalla vertigine della perdita e vivesse una convalescenza segnata da qualcosa di simile a un mal di mare. In entrambi i casi, c’è uno scarto tra i dati di senso e l’integrazione percettiva del soggetto che può diventare invalidante e che qui genera un senso di inettitudine cronico e uno sguardo straniante sul reale. In quanto personaggio, Alice si fa alfiere delle dipendenze come strategie di sopravvivenza per certi versi sostenibili, ma per me, come autrice, il suo vero meccanismo di autoconservazione è l’ironia. Nello sguardo e nella riflessione ironica sul mondo, Alice trova una forma di difesa e insieme uno strumento di conoscenza, un modo per restare in contatto con il mondo senza esserne travolta.

G.B.: Le relazioni occupano all’interno del libro una parte importante: ce n’è per tutti i gusti, da quelle disfunzionali a quelle che durano dai tempi delle superiori. E per quel che riguarda queste ultime c’è un passaggio che mi ha fatto pensare: Non era strano che passati i trent’anni i miei migliori amici, quelli che frequentavo nella provincia, fossero quasi tutti ex compagni delle superiori? A me pare che se uno lo definisce strano è perché dentro a questo fatto può intravedere la mia incapacità di stare al mondo come adulta, il mio bisogno di rifugiarmi in una specie di adolescenza infinita. Noi Millennial siamo in effetti una generazione nostalgica e complicata, nata sulla spaccatura, in un mondo di mezzo, nonché figlie e figli di una formazione a cavallo tra il mondo pre-digitale e l’immersione totale nel virtuale. Non dimostriamo l’età che abbiamo, e anche se sembriamo sempre giovani siamo in realtà dei disillusi. Però devo ammettere che, a differenza di Alice, personalmente per me è un casino anche incrociare al supermercato o sui social vecchi compagni di classe. Tocca salutarsi, elaborare in fretta domande di circostanza, darsi allo small talk. E comunque evito come la peste qualsiasi cena-reunion, che trovo qualcosa di molto vicino a un inferno in terra.
Tu che ne pensi? 

G.S.: Alice si interroga sulla stranezza delle sue relazioni più antiche perché ha interiorizzato, suo malgrado, uno sguardo normativo sull’età adulta. È ossessionata dal dubbio di non essere cresciuta nel “modo giusto”. I pochi amici stretti, che frequenta appunto dai tempi delle scuole superiori, rappresentano una forma di economia affettiva, non una regressione nostalgica; per intenderci, Alice non parteciperebbe mai a una cena di classe del liceo perché rivedere tutti gli altri compagni, quelli che la ignoravano o quelli che lei disprezzava, le provocherebbe solo disagio, la costringerebbe dentro uno spazio performativo che detesta. Alice mantiene e ricerca legami che non chiedono di dimostrare nulla, di raccontarsi come adulti riusciti, di aggiornare il proprio posizionamento sociale ed emotivo. In questo senso, la protagonista non incarna un’adolescenza infinita, ma una forma di disallineamento dall’adultità.
Alice, tra le altre cose, mi ha permesso di dare una forma narrativa a un pensiero personale sulla generazione a cui appartengo. Aver vissuto l’infanzia e la prima adolescenza tra gli anni Novanta e i primi anni Duemila per me è stata come una grossa e gioiosa abbuffata delle briciole della ricchezza tardocapitalista e del primato occidentale. In me sento incistato un immaginario abitato da visioni televisive del benessere che non perde il proprio potere fantasmatico di fronte a nessuna prova di realtà, dalle crisi climatiche ed economiche a quelle politiche ed etiche. Personalmente non provo nostalgia per quel passato, al contrario mi sento oppressa dalla forza illusoria che continua a emanare e che mi pare sprofondarci nell’impotenza e che forse ci consegnerà all’insignificanza storica: cosa rimarrà di noi nella Storia? Che intellettuali o politici riusciremo a esprimere?
Dietro e oltre la spaccatura tra l’era pre-digitale e quella virtuale di cui parli, c’è la voragine in cui sta franando tutto il fragile assetto socio economico e valoriale del nostro mondo. Come insegnante, da anni lavoro circondata dalla Gen Z e penso spesso a loro come a dei fratelli minori a cui la mia generazione ha voltato le spalle; marmocchi pieni di giocattoli che hanno tutto il diritto di rompere le palle ai loro genitori (Gen X) o ai loro nonni (Baby Boomers), ma non a noi. Noi “sorelle maggiori” abbiamo già le nostre grane: i lavori precari e sottopagati, i neonati o i preadolescenti per quelle che hanno messo su famiglia, le frustranti dinamiche del flirting/dating online per le single. Un giorno forse li vedremo arruolarsi come soldati informatici in una nuova guerra mondiale ibrida e continueremo a dire che a noi, tutto sommato, è andata peggio.

G.B.: Veniamo a un altro grande nodo irrisolto (nel libro ma anche nella vita di molte e molti di noi), ovvero la terapia. Gli strumenti di “salvezza” (pessimo termine, lo so) in fondo esistono: psicoterapia, gruppi, servizi territoriali, volontariato, Alcolisti Anonimi. Eppure funzionano solo se si è disposti ad affrontarne il costo emotivo e, soprattutto, se si ha la fortuna di incontrare una persona capace di un ascolto autentico. Perché troppo spesso, invece, ci si imbatte in superficialità, formule prefabbricate o, diciamolo, nell’ennesimo coglione che rischia di fare più danni che altro. Che cosa racconta tutto questo, secondo te, del nostro rapporto con la fragilità e con l’aiuto altrui?

G.S.: Ho immaginato che Alice attraversasse diverse “offerte” di salvezza con un’attitudine quasi socratica. Come Socrate, sa in partenza che nessuno le darà risposte risolutive, ma a differenza del filosofo, è fragile, introversa e, soprattutto, non è mossa da nessuna passione civica, vuole solo trovare una soluzione al suo malessere individuale. Alice ha intuito la natura verticale delle relazioni di cura e teme di perdersi e di non potersi mai davvero ritrovare nelle gerarchie tra Dottore e paziente, tra Potere Supremo e alcolizzato, tra fidanzati e amici in apparenza risolti e la sua identità frantumata.
Il percorso della protagonista abbozza un tentativo di posizionamento esistenziale che rifiuta i giudizi morali e rifugge le etichette diagnostiche della psicologia clinica e quelle morali dei pari. Al contrario di Alice, la generazione a cui apparteniamo mi sembra inesorabilmente attratta dai giudizi e dalle diagnosi, forse perché in questo frangente storico così mobile c’è bisogno della staticità delle definizioni e delle dicotomie, in primo luogo quella di vittima e colpevole. D’altra parte, è noto che noi Millennial stiamo attraversando la virtualizzazione delle relazioni dentro a delle bolle autoconfermative, perciò il dubbio ci è sempre più estraneo.
Io temo la deresponsabilizzazione insita nella therapy culture in cui siamo immersi. Ad esempio, si chiede a gran voce salute mentale pubblica, per tutti e soprattutto per i giovanissimi, ma quanta consapevolezza c’è delle immense differenze tra gli orientamenti psicoterapeutici? Cosa sappiamo delle tecniche consolidate o sperimentali che dovrebbero curare il dolore psichico? Ci affidiamo a una persona iscritta a un albo come degli adulti informati o come dei bambini confusi o, ancora, dei consumatori di pratiche curative? Alice è ossessionata dalla conoscenza, anche e soprattutto quando complica l’interpretazione del reale e rischia di bloccare il giudizio. Se posso essere sincera, mi piacerebbe che più trentenni le assomigliassero. 

G.B.:  Il romanzo è un po’ un non-finito michelangiolesco, di questa protagonista femminile ne conosciamo solo alcuni scorci e non l’epilogo. E va bene così, è coerente con la postura emotiva di Alice. Ad oggi quali domande speri che questo romanzo possa innescare al di là dei suoi temi apparenti? Non solo sulla dipendenza, sulla provincia o sul faticoso processo di diventare adulti, ma sul modo in cui attraversiamo il mondo, interpretiamo il dolore, costruiamo o smontiamo le nostre identità. Che tipo di conversazione desideri che si apra attorno a ciò che il libro lascia in sospeso, nelle sue zone d’ombra? E, soprattutto, che risposte ha dato a te la stesura…

G.S.: Vorrei che Alice aprisse una riflessione sull’idea di cura come mera ortopedia del sé, come sistema di reintegrazione del singolo nella performatività sociale. C’è un’ostinazione nel suo rifiuto di sentirsi colpevole o vittima che spero risuoni in alcuni lettori; non si tratta di un’identificazione con i suoi comportamenti tossici, ma del riconoscimento di una coscienza che inciampa, che si contraddice, che non arriva mai “dopo” a spiegare. Alice non riorganizza il senso di ciò che vive, lo attraversa nei modi che lei ritiene sostenibili e più adeguati alle sue risorse. Non potevo chiudere il suo arco narrativo né con la redenzione né con la tragedia perché non volevo abbandonarla a un destino; volevo lasciare lei e il lettore con la libertà di immaginare modi diversi e temporanei di essere felici e, forse, accettati.
In La paura ferisce come un coltello arrugginito mi sforzavo di mettere a fuoco una donna troppo distante e spettrale. Lì avevo scoperto che con la scrittura paradossalmente l’avevo ripersa anche se in un modo più consapevole, più abitabile. Con 8.6, invece, ho sperimentato la vicinanza di Alice e credo di essermi un po’ innamorata della sua fragilità ruvida, ho sentito che meritava di incontrare della tenerezza, qualcuno che riconoscesse la sua integrità dietro le frammentazioni dei suoi comportamenti e del suo sentire. Ammetto che dopo aver realizzato la necessità assoluta di un finale aperto, ho provato una lieve angoscia rispetto alla libertà che stavo concedendo ai lettori. Ho pensato “forse la maggioranza delle gente che recensisce, compra o prende in prestito libri augurerebbe ad Alice un epilogo salvifico o punitivo – la morte, il ricovero, la costruzione di una famiglia, magari anche la conversione religiosa”. Poi mi sono ricordata che leggere un libro non è come leggere un post sui social e che ho fiducia nella letteratura, di chi la scrive, di chi la pubblica e di chi la legge e ci riflette. 

 


Giulia Scomazzon
è nata a Vicenza nel 1987. Ha un dottorato in Letterature e Media e nel 2021 ha pubblicato il saggio sul “true crime” Crimine, colpa e testimonianza (Mimesis). Nel 2023 con nottetempo ha pubblicato La paura ferisce come un coltello arrugginito (vincitore del Premio Bagutta Opera Prima).


In copertina: Jean Béraud, L’assenzio, 1908

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