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La paura ferisce come un coltello arrugginito: l’esordio di Giulia Scomazzon (di Alice Pisu)

“Il passato non è morto; non è nemmeno passato. Ce ne stacchiamo e agiamo come se ci fosse estraneo” scrive Christa Wolf in Trama d’infanzia (trad. Anita Raja, edizioni e/o, 1992). Nella sua dolorosa rielaborazione del tempo, si relaziona a un trauma remoto osservando il rifiuto dell’espressione, il “disgusto della parola” che la spinge a “fornire dati provvisori, evitare le affermazioni, mettere sensazioni al posto dei giuramenti; un metodo per tributare alla faglia che attraversa il tempo l’attenzione che merita. Il presente si insinua nel ricordo, e il giorno odierno è già l’ultimo giorno del passato. Così diventeremmo sempre più estranei a noi stessi, senza la memoria di ciò che abbiamo fatto, di ciò che ci è accaduto. Senza la memoria di noi”.
Tra le traduzioni narrative italiane contemporanee degli esperimenti di esplorazione e manutenzione dell’infanzia condotti da Wolf spicca La paura ferisce come un coltello arrugginito, l’esordio di Giulia Scomazzon per Nottetempo. L’autrice si nutre delle parole di una delle maggiori intellettuali del Novecento per mettere mano a un passato incandescente, segnato a sette anni dal trauma della perdita materna.
“Il fatto che mia madre sia morta di AIDS è come un tassello di un puzzle con sporgenze o rientranze deformate: un’informazione tattile e visiva che non si riesce a incastrare da nessuna parte nella storia del “nostro” passato, dei “nostri” genitori, il segnale inequivocabile che io e gli altri orfani di AIDS siamo un errore di fabbricazione, una deviazione delle norme dell’impianto sociale, della Famiglia”.
Come rilevato da Wolf, i ricordi della prima infanzia considerati come certi sono privi di testimoni in grado di confermarli. Scomazzon parte dalla consapevolezza del tradimento della memoria per compiere una triste immersione nel suo tempo di bambina e chiedersi: “Come si fa rinascere il passato? Perché è così complesso sbrogliare il tempo, liberarlo dal male?”.

 

Elegge la scrittura come strumento per sezionare la verità sulla base di un cocente senso di colpa per la rimozione di istanti non replicabili, nella percezione di un vuoto che genera afasia e al tempo stesso preme per fratturare un presente sospeso, cristallizzato in una perenne e vana attesa. L’opera è un elogio del frammento, scruta la discordanza del tormento tra immagini improvvise e flashback inaffidabili.
L’autrice si confronta con la possibilità dell’inganno insito nelle sue poche certezze, per questo attinge ai ricordi altrui, cerca testimonianze che possano restituirle un’immagine autentica di sua madre Roberta. L’indagine parte da pochi dati certi: un centinaio di foto, le sottolineature in un libro di testi di Lou Reed, qualche ricetta e due lettere spedite a Andrea, il padre di Giulia, quando lei aveva tre anni. La scrittura è urgenza e vergogna al contempo: il timore della disapprovazione altrui, legato a sedimentazioni infantili, offusca la necessità di un omaggio tardivo per contrastare l’oblio definitivo. Avanzare per contrasti e contraddizioni, muoversi nell’incoerenza, permette all’autrice di esternare finalmente l’insoddisfazione e la solitudine radicati negli anni, associati a un’eterna immobilità nel disordine.
Il fluire ininterrotto della confessione rintraccia nel linguaggio il mezzo per connaturare l’urgenza: lontano dalla pura ricerca estetica, riunisce brandelli di istanti vissuti e rimossi per renderli portatori di interrogativi nuovi sulla morte, sul tempo, sull’identità, sulla memoria, sull’ambivalenza di un corpo custode di vita e trappola letale. La lettura di Christa Wolf ha rappresentato un’influenza evidente in Giulia Scomazzon, intuibile anche nella scelta formale oltre che tematica. Fantasticare di fissare una persona cara nel ricordo, reinventarla per trasformarla in simbolo ricorda quel che accade in Riflessioni su Christa T. (trad. Amina Pandolfi, edizioni e/o, 2003), un’acuta indagine sull’inadeguatezza mossa dall’elaborazione della perdita attraverso appunti e pagine di diario. Nella scrittura si consuma la presa d’atto dell’abbaglio rassicurante del ricordo, tra continui interrogativi sull’origine della paura: “Perché la paura è nuova. Come se lei dovesse morire un’altra volta, o fossi io a lasciarmi sfuggire qualcosa di importante. […] Un lutto distratto, un ricordo impreciso e una conoscenza approssimativa l’hanno fatta svanire, questo era comprensibile”.
La paura ferisce come un coltello arrugginito accerta nella frode della memoria un sopruso rinnovato nel presente, generato dalla percezione di aver distrutto, nella perdita di sua madre, un pezzo della propria identità, edificata e annientata dal silenzio e dalla pietà del mondo intorno. Tale smarrimento illumina le paure più oscure, come quella di rimanere isolata e senza memoria, “condannata a un lutto eterno che importa solo a me, che pesa solo su di me”.
La vicenda privata diventa una dolorosa e necessaria testimonianza delle conseguenze dell’AIDS in chi resta, nel racconto della situazione comune vissuta da chi cresce in un isolamento protettivo basato sul silenzio e sulla rimozione, maturando un profondo senso di ingiustizia nel non poter attingere nemmeno a ricordi indotti. Giulia si chiede come reagire a queste sedimentazioni infantili nel provare a superare una vergogna che spinge a tacere.
L’impianto formale identifica nell’autobiografismo “una sequenza disarmonica di dubbi”, stagliandosi sulla tendenza dilagante nella letteratura di non fiction contemporanea di esibire il dramma con verità inconfutabili. La dimensione linguistica assegna una cupa levità all’incedere narrativo, traduce il bilico problematico tra passato e presente nel rifiuto di versioni edulcorate di una realtà a lungo rimaneggiata e confusa, corrotta da tentativi di controllo e protezione.
“In un libro ho letto che, nel trauma, l’esterno (il mondo) entra nell’interno (il soggetto) senza una mediazione. Mi chiedo se possa valere anche il contrario, se quando si vive un trauma ci sia un interno che cade all’esterno e ci rimane intrappolato. Pezzi di quello che siamo implodono e cadono a pochi metri da ciò che eravamo, irraggiungibili”. Lo sguardo di chi narra indugia in modo maniacale su un istante del passato capace di dare forma a un presente interrotto.
Prende forma sulla pagina la natura dissonante e irregolare dell’evoluzione di una rabbia a lungo soffocata dal silenzio imposto, dall’ordine di non disturbare, sovrastata forzatamente da desideri apparenti che distraggono e danno un’aleatoria sensazione di benessere. Il racconto dell’impossibilità infantile di esternare emozioni è mitigato da bagliori improvvisi generati dal conforto momentaneo percepito da un gesto di vicinanza sui social o dal dono, a poco meno di trent’anni di distanza, di un’immagine affettuosa all’uscita di scuola da parte di una conoscente. Ogni pagina celebra il tentativo di un disvelamento salvifico, spesso vano ma necessario, che si compone di tenui avanzamenti in un presente incerto, nelle tracce che non conducono in nessun posto e che mandano fuori strada, nelle impronte “seminate a casaccio in un tentativo di fuga” da ciò che origina l’angoscia.
L’allestimento dell’enigma del reale attesta la difficoltà di autodeterminazione già affrontata da Christa Wolf, che porta l’autrice a vedersi come una persona “costruita attorno a un’assenza, eppure capace di esistere” senza trasformarsi in una menzogna. La dimensione domestica in tal senso rappresenta il primo terreno di esplorazione sensibile compiuto da Scomazzon nel contrastare la sua dissociazione dalla realtà. Gli oggetti che la attorniano custodiscono storie lontane, i mobili nascondono scritte infantili, eppure invece di aiutarla a ricordare, le cose che la circondano si rivelano sconosciute e richiamano le parole di Faulkner sul lutto come uno sfratto.
L’esplorazione fisica si collega anzitutto alla mancata accettazione di ipotesi tragiche sulla morte della madre, nel continuo travalicare del razionale sull’immaginario. Il panico oscuro e ingovernabile che prende forma, evoca una visione dell’infanzia sovrapposta al presente: “La bambina che sono stata è l’area sismica su cui ho costruito la mia identità, un edificio storto e pericolante”.
La struttura dell’opera è un groviglio inestricabile di grandi fatti storico-politici e tumulti personali. “Chernobyl e l’AIDS hanno calato il loro sipario di premonizioni di un’apocalisse sull’inizio della mia vita e, contemporaneamente, sulla fine di un’era da cui ancora non è nato niente, solo gli strascichi sporchi di una conclusione che ci segue e ci precede. Da allora tutto si è come congelato in un senso di allarme perenne, qualcosa che ci pesa addosso senza mai schiantarci a terra perché prima della terra dura c’è quella pasta morbida e porosa che ingloba: la società, la famiglia, le relazioni, il lavoro”.
Il dialogo tra le dolorose vicende private e quelle storiche e sociali rivela nell’opera il peso del paradosso della cura. A partire da un dramma privato, l’autrice osserva il modo in cui ogni figura si relaziona a vario titolo alla perdita, dal complesso tratteggio di Assunta, la nonna tutrice a tratti feroce, segnata nel profondo dalla vergogna, al tenero e disperato ritratto di Andrea, il padre operaio edile amante di Truffault che con la sua ombra ha protetto e, al contempo, inconsciamente frenato l’emancipazione di sua figlia, rendendola invisibile agli altri e a se stessa. Scomazzon evidenzia le falle della risposta politica all’esplosione dell’Aids in Italia per indagare lo stigma, interrogarsi sull’ipocrisia della lotta contro la droga nella collaborazione tra Democrazia Cristiana e Partito Socialista, e analizzare il contesto che ha reso fertile la controversa situazione legata a San Patrignano e a Muccioli, definito “l’Abramo romagnolo senza l’angelo a bloccargli la mano, che si batte per uno Stato più repressivo e tuona circondato dai suoi piccoli Isacco: Basta droga di Stato, basta metadone o Valium! Basta con il compiangere il tossicodipendente e concedergli la modica quantità!”.
Oltre ad esaminare i danni che tale impostazione ha generato negli anni, l’autrice indugia sugli esiti nel presente di un pregiudizio radicato, generato dall’immaginario televisivo e cinematografico sui tossicodipendenti imperante per decenni in Italia e che, ancora oggi, nella narrazione della malattia sottende a una colpa originaria.
“Forse il mondo riesce a dedicare un po’ del proprio tempo alle vittime solo quando riconosce o pensa di riconoscere i colpevoli, altri esseri umani meno umani delle vittime, persone da cui dobbiamo distinguerci per andare avanti con le nostre certezze o fantasie sul progresso umano”.
Un aspetto a lungo esplorato da Susan Sontag che nel saggio Malattia come metafora (trad. Paolo Dilonardo, Nottetempo, 2020) identifica nell’Aids un posto importante nella coscienza sociale a causa di ciò che rappresenta: l’emblema di tutte le catastrofi da cui le popolazioni privilegiate si sentono minacciate. In particolare a proposito dell’analisi della malattia come metafora, Sontag sottolinea anche i danni generati dal linguaggio bellico utilizzato nel parlare di invasione e di corpo come campo di battaglia, nel concepire i malati come vittime inevitabili e nemici. Sono aspetti su cui Scomazzon torna a più riprese nel costruire un memoir atipico che si fa portatore di innumerevoli altre storie senza voce tra le “migliaia di madri e di padri che hanno seminato orfani smemorati nel sud dell’Europa”.
Con La paura ferisce come un coltello arrugginito Giulia Scomazzon compone un trattato sulla perdita che setaccia il vincolo della colpa, il peso della vergogna, il ruolo di un desiderio che oscilla tra ossessione e disaffezione, il significato di vivere nell’ingratitudine per interrogarsi, attraverso l’elaborazione di una dolorosa sospensione, sulla scrittura come mezzo per imparare ad abitare quella che Sontag definì “una cittadinanza più gravosa”.

 

Di Alice Pisu

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