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Nello ‘Studio Privato’ di Violetta Bellocchio

Di Elena Cirioni

 

L’autofiction spopola nelle nostre librerie. Negli ultimi anni la narrativa italiana ha smesso di affidarsi alle storie per concentrarsi su chi le storie le scrive. È un fenomeno culturale che rappresenta l’estrema conseguenza della tendenza ad attenzionare lo scrittore o la scrittrice di turno, trasformandoli quasi in performer di sé stessi. Una china pericolosa, che rischia di compiacere i lettori e di costruire, a tavolino, un’idealizzazione del proprio autore o della propria autrice del cuore.
Ma l’autofiction non è soltanto un modo per parlare di sé: è un modo di rappresentare l’io, analizzarlo, vivisezionarlo, per poi imbastire una costruzione narrativa. In questo processo, verità e invenzione si mescolano, creando una zona d’ombra inquieta, limo salvifico per la letteratura.
Violetta Bellocchio è una delle voci più vive e coerenti di questa ricerca. Con Studio Privato edito da 66thand2nd apre un nuovo archivio narrativo, continuando a esplorare il suo corpo e la sua mente.
La voce della narratrice è un’eco dell’autrice che racconta il suo mondo; la carriera da scrittrice, il lavoro all’interno della redazione di una rivista femminile, i problemi pratici di un mestiere precario. Tutto questo viene incorniciato nei confini di una città, Milano. Metropoli rappresentata da una griglia limitata dove non si vive, ma si scorre seguendo cicli di demolizione e ricostruzione “che hanno sempre richiesto la tua sincera disponibilità a essere alterato e ad abbracciare l’alterazione come il massimo risultato di tutte le tue avventure.”
Un’alterazione della realtà tipica di chi scrive, ma che si scontra con il disagio interiore del sopravvivere all’idea di “suicidarsi per non dover richiamare un addetto stampa” avendo l’impressione di essere solamente uno schermo su cui la gente proietta quello che vuole vedere. 

La ricerca di un’identità autentica rimane l’agognato punto d’arrivo dell’esplorazione interiore della protagonista, un miraggio che continua a spostarsi mentre lei, per necessità più che per vocazione, si reinventa come professionista dell’ascolto, dispensatrice di conforto e presunte verità. È in questo slittamento di ruolo che prende forma un’atmosfera sottilmente tragicomica: nel suo orbitare compaiono curatori improvvisati, life coach dalla saggezza traballante, uomini e donne tanto fragili da consegnarsi senza riserve al primo che prometta una cura rapida per rabbia repressa, traumi infantili, disturbi alimentari, o semplicemente per il senso di smarrimento che li tiene a galla. Nel suo studio privato, Violetta Bellocchio accoglie queste esistenze incrinate; da scrittrice si nutre delle loro storie, desidera comprenderne la traiettoria segreta; da narratrice le smonta, le ricompone, le fa risuonare dentro di sé. È affamata di ciò che resta sotto la superficie: i traumi rimossi, i desideri amputati, le crepe che nessuno mostra volentieri. E mentre tenta di interpretare gli altri, di fatto continua a interrogare sé stessa, come se ogni racconto altrui fosse uno specchio affilato in cui sbirciare la propria identità, altrettanto irrisolta.

 


Qui la sua prosa è diretta, lucida anche nei momenti in cui la razionalità si perde.
Sotto a questa lucidità fredda si nasconde una forte emotività calibrata, chiara e mai eccessiva. 



L’empatia viene utilizzata non per trovare la strada per una catarsi personale, ma per capire l’altro, senza giudicarlo. Il linguaggio terapeutico e di conseguenza la narrazione si trasforma in un’unica e necessaria capacità di esistere, di sconfiggere vuoti esistenziali e paure. Nessuno si salva dentro e fuori lo studio privato di Violetta Bellocchio, nemmeno chi legge. Sotto lo sguardo spietato della scrittrice non c’è spazio per la guarigione, ma soltanto per uno svelamento consapevole che pone il lettore di fronte alle sue fragilità più nascoste. Curarsi non significa tornare interi, ma crepati, rotti, dissestati. Accettare queste crepe è il messaggio di Studio Privato: un libro che non rappresenta l’ennesimo tentativo di autofiction, ma diventa un romanzo politico dove il dolore psichico è accettato senza tentativi di addomesticazione e la sua storia di sofferenza si trasforma in letteratura. 

 

 


Violetta Bellocchio (Milano, 1977) è scrittrice, traduttrice e giornalista. Ha curato l’antologia Quello che hai amato. Undici donne. Undici storie vere (Utet, 2015) ed è autrice dei romanzi Sono io che me ne vado (Mondadori, 2009), Mi chiamo Sara, vuol dire principessa (Marsilio, 2017) e La festa nera (Chiarelettere, 2018), oltre che dei memoir Il corpo non dimentica (Mondadori, 2014) ed Electra (il Saggiatore, 2024).


 

In copertina: Vasca numero 0, by Giulia Bocchio

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