Di Serena Votano
Da adolescente guardavo con ammirazione le mie compagne di classe che portavano a scuola la loro trousse e, durante le lezioni, andavano in bagno a rifarsi il trucco. A me non era concesso: i miei genitori lo consideravano “prematuro” e io non capivo: prematuro rispetto a cosa? Negli anni, poi, ho iniziato a considerare quel comportamento esagerato, persino frivolo. Non era quell’immagine che volevo dare di me. Volevo che fosse chiaro, anche all’esterno, che prima di tutto ero una lettrice.
Adesso che devo considerarmi adulta, non passo molto tempo davanti allo specchio: la beauty routine mi sembra un progetto diabolico che non mi appartiene. Tuttavia, nei limiti del possibile, sto imparando a prendermi cura della mia pelle. Non amo le mode né i grandi marchi, evito di vestire in modo disordinato ma l’eccesso di perfezione mi fa sentire a disagio. Le mie borse di tela sono un piccolo manifesto quotidiano. Eppure sono schiava delle apparenze: il modo in cui mi vesto, la pettinatura, il mio corpo parlano al posto mio quando mi muovo nel mondo. È esattamente da questa ambivalenza che parte Prepararsi. Il libro delle apparenze (edito da 66thand2nd), il nuovo libro di Sara Marzullo. Dopo Sad girl – La ragazza come teoria, in cui indagava l’archetipo della ragazza triste, Marzullo torna a interrogarsi sul corpo, sullo sguardo e sul lavoro quotidiano di costruzione di sé.
Tra storia del costume, questione di genere e pressione sociale, l’autrice indaga quel momento di riflessione, solitamente davanti all’armadio, allo specchio o prima di uscire, in cui decidiamo come apparire al mondo.
Leggendolo, mi sono sentita messa in causa. Oggi sembriamo costretti a essere “presentabili”, ma anche quando proviamo a sottrarci, stiamo comunque comunicando qualcosa.
Alla fine della lettura, come spesso accade, avevo più domande che risposte.

Dopo Sad girl. La ragazza come teoria, torni a interrogarti sul corpo e sulla costruzione dell’identità con Prepararsi. Il libro delle apparenze. In che modo quel primo lavoro ti ha condotta qui? Cosa hai sentito di dover approfondire o mettere in discussione?
Per me i due libri sono molto legati tra di loro, non solo a livello tematico. Prepararsi nasce da riflessioni che ho iniziato con Sad girl. Alcuni elementi erano già emersi durante la scrittura e la presentazione effettiva del primo libro, sentivo il bisogno di continuare a indagarli. Mi interessava soprattutto quel desiderio, presente nelle figure femminili, di far coincidere l’aspetto esteriore – il modo in cui ci si presenta, anche attraverso le figure a cui ci si associa – con ciò che si sente dentro. L’identità, in fondo, è proprio questo: ciò che siamo dentro deve poter emergere anche fuori. Le sad girl mi sembravano “prepararsi” per essere tali. Nell’esperienza femminile c’è un’attenzione al dato esteriore profondamente ambivalente: da un lato un senso di imposizione, da cui si desidera insieme ribellarsi ed emanciparsi; dall’altro, un’esigenza più felice, di espressione autentica e di comunicazione di sé. Questo è il motivo per cui volevo continuare questo tipo di riflessione, da qui nasce la domanda che è all’origine di Prepararsi: perché le donne si preparano? Perché gli uomini no? E perché, anche se non sono più obbligate a farlo, le donne continuano a dedicare tanto tempo e denaro a questo aspetto? Nel momento in cui io mi sono posta queste domande, ho visto che in realtà ne sono emerse molte altre.
Diciamo di prepararci per noi stesse, ma in realtà siamo molto influenzate dalla pressione esterna, dai modelli da seguire, dagli stigmi. Sembra di dover dimostrare ciò che siamo attraverso l’apparenza, più che meritarselo o diventarlo.
Storicamente le donne dovevano sposarsi per sopravvivere, quindi essere presentabili era fondamentale per la loro sopravvivenza materiale. Secondo me è più interessante chiederci perché oggi, che invece questo tipo di pressione non dovrebbe più esserci – possiamo lavorare, essere indipendenti – eppure questa pressione resta pervasiva. E poi ci sono tanti altri temi, come quello della transessualità, in cui il poter combaciare con l’idea che si ha di sé diventa un atto liberatorio, anche quando coincide con le norme del genere a cui si sente di appartenere.
Nel libro, “prepararsi” non è solo un gesto davanti allo specchio, ma un modo di entrare nel mondo. Quando ci prepariamo, ci stiamo davvero rendendo visibili o stiamo soprattutto imparando a sopravvivere allo sguardo degli altri?
Entrambe le cose. Questo dilemma è irrisolvibile, ed è proprio ciò che lo rende interessante. Come scrive Camille Froidevaux-Metterie, l’aspetto fisico, l’apparenza è un progetto di coincidenza con se stessi. Anche in natura gli animali si esprimono attraverso piumaggi, squame o colori che hanno una funzione estetica e identitaria. Allo stesso modo, la storia del costume – non solo della moda – non è tanto un tentativo di espressione personale quanto un modo di tramandare la propria storia culturale. Ma viviamo dentro un regime di visibilità estrema, che colpisce in modo particolare il genere femminile. Nonostante le conquiste in termini di diritti e presenza nello spazio pubblico, questo regime sembra essere ineludibile. Vale anche per gli uomini: le norme di genere maschile sono restrittive, solo meno visibili. Esistono regole implicite di appartenenza, di classe, di ruolo. In molti casi bisogna imparare a vestirsi per essere accettati.
Il mio libro rimane in questo punto di ambivalenza, consapevole che l’apparenza è un terreno di negoziazione, la superficie su cui si scontrano ciò che vogliamo mostrare di noi e ciò che crediamo sia giusto mostrare.
Il tuo romanzo mi ha fatto riflettere sul fatto che personalmente non passo molto tempo a prepararmi e truccarmi, eppure sono ossessionata dal modo in cui gli altri mi vedono — il modo in cui mi vesto, il colore dei capelli, il corpo — come se tutto ciò in qualche modo mi descrivesse. Ho sempre visto queste scelte come personali, ma più leggevo il tuo lavoro, più mi rendevo conto di quanto siamo influenzati da film, pubblicità e opinioni malsane. È possibile smettere di prepararsi per lo sguardo altrui e iniziare a farlo per ragioni identitarie personali? Come si può trovare un equilibrio tra prendersi cura del proprio aspetto senza sentirsi schiavi dell’apparenza?
Secondo me non è mai del tutto possibile. Viviamo in società, e la nostra idea di bellezza è inevitabilmente culturale. Credo che avere più consapevolezza di questi meccanismi aiuta, ma pensare di potersi esprimere in modo “puro”, indipendente dagli altri, è un’illusione.
La pressione estetica è sociale, non personale. Esiste un modo di perpetrare e consolidare un ordine sociale attraverso la distinzione tra ciò che è considerato rispettabile e ciò che non lo è. Ed è il riflesso di un ordine di classe, oggi più elusivo difficile da riconoscere. Viviamo in un’epoca contraddittoria: da un lato c’è una grande libertà di espressione estetica, dall’altro una forte pressione proveniente dal mondo del wellness, della moda e della bellezza. Questa libertà, spesso, non si oppone ai modelli di sfruttamento economico o ambientale. È interessante notare come, nonostante la retorica liberatoria, i modelli di bellezza restano iper-canonici – come la magrezza – e sempre più legati al privilegio economico. Anche il ritorno del lifting come intervento di ringiovanimento è indicativo: è molto più costoso di altri trattamenti, segno che la bellezza resta una questione di classe. È incredibile vedere come le carte cambiano, ma per certi versi sembriamo rimanere allo stesso punto di partenza.
È la contraddizione delle nuove generazioni. Oggi ci si “prepara” anche per essere visti online, non solo dal vivo. Tra body positivity e ipercontrollo estetico, secondo te, prevale una maggiore consapevolezza o una nuova forma di pressione sociale?
La socialità si è spostata anche nel mondo digitale, in un certo senso siamo sempre “in scena”. Molti ritocchi hanno senso solo davanti alla fotocamera, non nella vita reale. Se da un lato non esiste più un abbigliamento formale, dall’altro l’iper-visibilità ci spinge a essere sempre performanti. Non si tratta più di piacere all’altro, ma di ottimizzare se stessi, di apparire sempre “sul pezzo”, efficienti, in forma. È un’idea di miglioramento personale potenzialmente infinita. Ci siamo liberati dallo sguardo maschile, forse, per finire in un labirinto da cui è difficile uscire.
… Per finire nell’idealizzazione di un sé perfetto, costruito scrollando immagini che mostrano solo una realtà parziale.
Vediamo gli altri in modalità iper performante, ma ciò che vediamo online è solo una frazione delle loro vite. Questo alimenta un’ansia di miglioramento continuo, resa ancora più vendibile in un contesto lavorativo in cui ciascuno è responsabile del proprio successo. In una società così, è molto più facile vendere l’idea di una “ricetta per essere più performanti, più efficienti, più efficaci” che non una dieta per la prova costume o per conquistare qualcuno. È cambiato il vocabolario, ma non la pressione. Anzi, per certi versi, mi sembra addirittura aumentata.
Gli abiti e i gesti raccontano il privilegio, ma anche la fatica di appartenere. Nel tuo libro ricordi che prepararsi è ancora un gesto soprattutto femminile, anche se gli uomini, in modi più sottili, lo fanno da sempre. Ma per quale motivo chi controlla il proprio corpo è considerato “disciplinato” se è un uomo (oppure “eccentrico”, se eccessivo), ma “vanitoso” se è una donna?
Viviamo in una società di matrice cristiana, che considera l’anima superiore al corpo. Tutto ciò che è esteriore è visto come secondario. Dall’inizio del Seicento, con l’affermarsi del lavoro come valore, l’uomo moderno assume un abbigliamento sobrio, razionale, rigoroso. L’uomo che si cura è disciplinato. L’accusa di vanità è sempre stata rivolta alle donne perché la loro attenzione all’aspetto estetico era fondamentale per trovare marito. Gli uomini si devono vestire in un certo modo e quel modo di vestire è un po’ una maschera della maschilità e uscire da quei binari, fatti di norme molto stringenti, può essere ancora rischioso: basti pensare a chi vive una transizione di genere o sceglie un abbigliamento più sensuale. La violenza contro chi non si adegua è la forma più esplicita di questo stigma.
(Spoiler alert) Chiudi il romanzo scrivendo: «Spero che non ti guarderai più come ti guardavi prima, ma con più sospetto e desiderio di indagare le tue apparenze, che sono tutto tranne che superficiali». È un invito a sé stesse, ma anche a non giudicare l’altro.
Possiamo capire molto di noi e degli altri dal modo in cui ci presentiamo, ma non in senso banale. C’è dentro tanta cultura, tanta società. Parlare di apparenze significa parlare di genere, di classe, di economia. Eppure questi temi vengono ancora liquidati come sciocchezze o mode.
Sara Marzullo, è giornalista culturale e traduttrice. Ha scritto di romanzi, città e genere su «Il Tascabile», «Harper’s Bazaar» e altre testate. Prepararsi è il suo secondo libro, dopo Sad girl. La ragazza come teoria (66thand2nd, 2024).
In copertina: Paravent, Toyen

