Di Annachiara Atzei
“Non domandare nulla.
La primavera arriva
per rimarginare
il perimetro di una ferita:
il ghiaccio dell’eterno
portato sulle nostre dita”
Antonietta Gnerre, Umano fiorire
Le stagioni curano il corpo. La natura lo avvolge e lo penetra per somigliargli. Le piante, le montagne e il clima hanno il nostro stesso battito, o forse, noi abbiamo il loro: insieme a essi, possiamo risvegliarci. È un invito alla riflessione sull’uomo e sul cosmo, quello di Antonietta Gnerre in Umano fiorire (Passigli, 2025) e soprattutto è un ragionamento su come piccolo (l’umano) e grande (l’infinito che ci circonda), visibile e invisibile, stanno in rapporto tra loro. È, anche, una ipotesi su come l’uno può dire dell’altro – e quindi prima di tutto di sé stesso – o almeno provare a farlo con i mezzi che gli sono dati.
Di ogni evento minuscolo – ma che allo stesso tempo ha una portata senza misura – l’autrice annota tutto: il risveglio dell’alba, le zampette di un bruco, un uccello sul seme, il ritorno dell’ape all’alveare. La poesia, sembra dirci Gnerre, è il mezzo per stare nel creato – per animarlo noi pure insieme al resto – e trasformare, in tal modo, il peculiare (ciò che sembra essere residuale: anche ogni persona nella sua quotidianità) in universale, l’ineffabile su quanto ci riguarda, nel dicibile. Come se la scrittura fosse una postura dello sguardo. Come se servisse a capire chi siamo e cosa ci definisce, esplorando la realtà esterna e ciò che ci muove dall’interno.

Le quattro sezioni del libro, in cui poesie più lunghe si alternano a frammenti brevi e incisivi, culminano con la serie di testi che gli danno il titolo e dove – più che in ogni altra parte della raccolta – la crescita personale e il sentire interiore hanno un respiro più ampio perché in relazione con l’universo nel suo senso assoluto. Non a caso, l’esergo di quella sezione è tratto da una poesia di José Tolentino Mendonça: “C’è una cosa più importante/ del nostro fiorire: il nostro rifiorire”. Si tratta di una occasione di rinascita: la caduta, l’errore, il ripensamento, l’inciampo non sono mai definitivi ma possibile motivo di riscatto e di ricongiungimento con l’esistente. Come se il paesaggio e ciò che lo abita non fosse solo qualcosa da percepire con gli occhi (o con tutti gli altri sensi) ma esperienza diretta di sé attraverso esso, vento che agita la nostra psiche, relazione col tutto che ricompone l’identità.

Osservare, allora, ma, ancor di più, fare spazio al silenzio per essere più sensibili verso ciò che accade (“abitare con amore/ questa nostra casa nell’universo”, dice l’autrice) è l’idea di immedesimazione che si percorre in questo lavoro. Imparare una nuova lingua, anche: quella degli altri esseri, viventi e non viventi, per una comprensione reciproca e una comunione col mondo vera e rivoluzionaria in cui non ritenersi e non essere centro esclusivo ma parte, elemento, uguale sostanza che partecipa – pur con innumerevoli desideri e limiti – a quanto ci sta intorno.
Cinque poesie da Umano fiorire (Passigli)
Partecipare al risveglio della scrittura,
poco prima dell’alba, sulle corolle
delle azalee che dormono.
La lentezza sfiora gli eterni profumi.
Goccia a goccia, parola su parola
imparo il colore della luce
sul colombario.
Sono qui per guardare
i passi delle zampette di un bruco,
vicino alla vecchia pianta di aneto.
La terra è tutta davanti a me,
nobile e antichissima.
Quando arriverà il bozzolo?
Ci vorrà tempo.
Ci vorrà tempo per scrivere delle ali,
delle tuniche del grano.
Dell’anniversario della cenere delle stoppie.
*
Oggi e per i secoli a venire
avremo cura
per l’azzurro del cielo,
per il fiato di una spina.
Avremo cura delle api,
della pace dei fiori.
Dello sguardo di un uccello
sul seme,
prima di essere mostrato al gelo.
Oggi e per i secoli a venire
parleremo della terra
del regno minerale:
degli esseri viventi e non viventi.
E quando impareremo la nuova lingua,
con le sillabe degli astri,
parleremo del Sud.
Del fango portato sulle mani.
Oggi e per i secoli a venire
impareremo che ciò che siamo qui
ci somiglierà in eterno.
Saremo per sempre noi:
carichi di tutte le cose
che abbiamo perdonato
nei campi.
*
Applico la misura del dono
per camminare sulla terra.
Mi condanno e mi consacro
a gioie più grandi:
ascoltare i solfeggi degli alberi,
disegnare le montagne.
Applico la misura del dono
per saltare con la corda
sulle acque. E ritorno nell’alveare
con l’immagine di un fiore,
di un angelo che pronuncia una sillaba.
*
Nascondiamo la nostra anima
nelle radici. Apparteniamo
alle impronte del tempo.
*
Il clima ci sta modificando,
forse anche noi impazziremo
quando la curvatura della luce
non ci guarderà più.
*
Dobbiamo abitare con amore
questa nostra casa nell’universo.
Antonietta Gnerre (Avellino, 1970), è scrittrice per ragazzi e poetessa. Laureata in Scienze Religiose, si occupa come studiosa della poesia spirituale del Novecento. Ha pubblicato le raccolte: “Il silenzio della luna” (1994), “Anime di foglie” (1996), “Fiori di vetro – restauri di solitudine” (2007), “Preghiere di una poetessa” (2008), “Pigmenti” (2010), “I ricordi dovuti” (2015), “Quello che non so di me” (2021). Ricordiamo anche la sua opera saggistica, in particolare con i volumi “Meditazione poetica e teologica in Mario Luzi” (2008), “Cristina Campo – Il viaggio silenzioso e spirituale” (2013). Come narratrice per ragazzi, ha pubblicato la favola “La storia di Pilli” (2019). È presidente del premio internazionale Prata e direttore artistico della Festa dei libri e dei fumetti di Avella.
In copertina: Silent House 2025 by Bianca Bondi

