A cura di Annachiara Atzei
Di quel transito d’acqua, di quell’ultimo fiume
rimane un’ombra come di nostalgia.
Eppure continuiamo
a passi lenti, un’altra età sulle spalle,
nel disastro e nella speranza.
Rabdomanti di un vecchio sogno già scaduto.
Fabio Pusterla, Fiumi nefrite vortici
Esiste un punto di equilibrio nella convivenza degli opposti? Tra il dentro e fuori di noi, il vicino e il lontano delle cose del mondo, la dolcezza e l’orrore può esserci uno spazio di non-contraddizione? In Fiumi nefrite vortici, l’ultima raccolta poetica di Fabio Pusterla per Marcos y Marcos, in cui stanno insieme persone e voci che appaiono anche lontanissime tra loro, non c’è alcuna volontà di sintesi o riduzione a unità, piuttosto la consapevolezza che ogni evento, ogni essere e ogni oggetto sono attraversati dai contrasti e, in questo sommovimento, avanzano. Accade così che i fiumi sono talvolta reali e talvolta percorrono territori misteriosi, che la nefrite è malattia e allo stesso tempo rimedio, e che il vortice porti distruzione o crei altri universi. E, nonostante questo, tutto, nel libro, trova il suo ritmo, la sua cadenza, il suo battito pur se i versi siano mossi da contingenze diverse e distinti sentimenti ed emozioni. La poesia, infatti, è per Pusterla il dispositivo adatto a dire il nostro tempo – specie dove perde la sua linearità e singolarità. Il suo linguaggio è socievole e selvaggio, perciò in grado di indagare sul molteplice e i suoi strati.
Inizierei dal titolo della raccolta, che è fortemente evocativo: che significato ha e qual è il rapporto tra fiumi, nefrite e vortici, apparentemente così distanti tra loro dal punto di vista semantico e non solo?
Il titolo è nato abbastanza precocemente, poi è rimasto in bilico rispetto ad altre possibilità, e per finire mi è sembrato giusto. Le tre parole che lo compongono riassumono alcune caratteristiche di questo libro, che nasce da una somma di esperienze: la malattia di mia madre e di mia suocera, entrambe attorno ai cent’anni, con i conseguenti ricoveri in case di riposo; la preoccupazione per ciò che accade attorno a noi (e forse anche dentro di noi); e infine la gioiosa presenza di tre nipotini. I fiumi, per cominciare, attraversano quasi costantemente l’opera, cosa di cui non mi ero inizialmente resto conto. Sono, all’inizio, fiumi reali, innescati da un sintagma (“ultimo fiume”) che ho incontrato nel romanzo di Vasilij Grossman, “Stalingrado”; poi però diventano altro, e l’ultima sezione del volume, intitolata appunto “Ultimo fiume”, mi ha condotto in territori più misteriosi del solito, che sto adagio adagio cercando di spiegare a me stesso. La seconda parola, “nefrite”, nasce da un evento concreto: la malattia, una nefrite appunto, che ha condotto mia madre verso un tracollo irreversibile, rendendo inevitabile il suo ricovero in una casa di riposo. Ma la nefrite è anche una varietà di giada, a cui sono state attribuite virtù terapeutiche. E la malattia di mia madre nel corso del libro diventa anche la malattia del nostro tempo, e dell’Occidente in generale. Infine, i “vortici”: dapprima gorghi di vertigine che si aprono in quello che credevo di sapere di me, della mia storia e della storia di tutti; poi però anche sommovimenti dell’aria, capaci di aprire nuove prospettive, nuovi modi di essere. I vortici, insomma, ancor più della nefrite, hanno in sé la triplice natura della distruzione, della voragine e del mutamento (è un vortice o tornado che nel Mago di Oz trasporta la casa di Dorothy nel paese dei Ghiottoni, dando inizio alle sue avventure).

In questo lavoro convivono gli opposti: le ombre dell’età anziana e la speranza dei bambini, l’imbarbarimento della società civile e i saldi rapporti familiari, la vicenda personale e gli orrori mondiali. Qual è il punto di equilibrio?
Non sono sicuro che esista un punto di equilibrio tra queste forze contrastanti; come non sono sicuro che l’equilibrio esista fino in fondo dentro di me; né, a ben vedere, che sia sempre auspicabile. Forse si tratta di convivere proprio con l’assenza di equilibrio, con lo stridore e con la contraddizione, senza negare che esistono cose belle, persino meravigliose; ma senza neppure cedere alla tentazione di trovare in esse una consolazione troppo facile e illusoria. Viviamo nell’alternanza di forze contrastanti, tra dolcezza e orrore, esile speranza e manifesta catastrofe, come improbabili funamboli o rabdomanti che nonostante tutto cercano di avanzare. Le voci e le figure che parlano in questo libro non possono guardare con molta fiducia al futuro; ma non sanno e non vogliono neanche rassegnarsi alla disperazione. Camminano (è anche un libro pieno di spostamenti e di strade, sentieri e piste non tracciate), e forse il loro movimento corrisponde, sul piano formale, all’unico eventuale punto di equilibrio: il ritmo (“ritmo di fiato, ritmo di parole”, recita un verso).
Trovo questi versi molto toccanti e capaci di aprire nuovi spazi di riflessione: “A che punto, vorrei chiedere loro,/ a che punto è la notte signori, quando entrano cauti o incauti/ e mi toccano voltano asciugano,// a che punto è la notte, signori,/ guardiani, custodi, sentinelle, se ci sono ancora stelle o la caligine/ si è sdraiata per sempre sul mondo”. Il dolore è un segno di debolezza? E siamo ancora capaci di empatia?
I versi in questione sono nati da due contingenze diverse: l’esperienza di seguire due donne molto anziane nei loro ultimi anni di vita, e l’invito di un amico pittore a scrivere qualcosa partendo da un passo celeberrimo di Isaia (“a che punto è la notte, sentinella?”). Le due cose si sono misteriosamente alleate, e da qui è partita la poesia, che è stata una delle prime che ho scritto, e da cui si è poi lentamente originata la sezione che la contiene e forse anche l’intonazione generale del libro. Quanto al dolore: non credo sia un segno di debolezza. Il dolore è una realtà inevitabile, dai mille volti, che tutti incontriamo più volte nel corso della nostra esistenza. La debolezza, semmai, mi sembra stare nel rifiuto del dolore, nel tentativo di non guardarlo in faccia, di non affrontarlo, di non ammettere che fa parte del nostro essere nel mondo, che deve avere un posto alla nostra tavola. Del resto, la coscienza del dolore, l’averlo sperimentato, è forse la condizione necessaria per riconoscere il dolore delle vite altrui, cioè per vivere, come suggerisce la domanda, in maniera empatica. Solo chi ignora il dolore, cioè chi non vuole accettare di riconoscerlo e di accoglierlo come un ospite forse non desiderato ma nemmeno eliminabile, si rifiuta agli altri, mi dico.

Tra le tante persone e personaggi che percorrono il libro, e tra le tante voci che possiamo udire – che non coincidono mai con quella dell’autore – ci sono anche gli animali: qual è il nostro rapporto con loro? È possibile un nuovo esercizio di prospettiva e una coesistenza in libertà?
Posso parlare, come nelle risposte precedenti, solo partendo dalla mia esperienza individuale, senza nessuna pretesa di costruire ragionamenti generali, di cui diffido. E la mia esperienza è questa: sono affascinato dagli animali, li guardo ogni volta che posso, e in circostanze particolari (una passeggiata nella foresta, o in montagna, per esempio) mi sembra che la loro apparizione sia una specie di epifania, o di dono inatteso. A lungo ho creduto che in questo ci fosse soprattutto l’esperienza dell’alterità: il cervo o lo scoiattolo che per un istante mi guardano, sembrano guardarmi, ma io ignori cosa vedono di me. I loro occhi aprono una finestra fascinosa e inquietante su altre forme di vita, altre dalla mia e sostanzialmente inconoscibili. Ma da qualche tempo sto riflettendo sul pensiero di un filosofo francese contemporaneo, Baptiste Morizot, che propone di scardinare la vecchia antitesi uomo/natura, da cui in fondo deriva ciò che ho appena detto, sostituendola con il concetto del “vivente”. Il vivente: una sola parola, in cui improvvisamente possiamo sentirci inclusi, senza nessuna posizione dominante, senza nessuna deriva metafisica, ma anche senza nessuna separatezza assoluta. A partire da qui, posso forse ragionare in maniera nuova sulla mia fascinazione per animali e piante: un titolo famoso di Derrida, “L’animal que donc je suis”, comincia ad assumere un significato diverso, e più concreto; l’alterità si muta in diversità e i rapporti con i “diversi da me” possono forse essere più praticabili rispetto a quelli con gli “altri da me”. Simili riflessioni mi stanno spingendo a riconsiderare molte cose; ma sono solo all’inizio di questo percorso.
Può, la poesia, tenere insieme il ricordo e la proiezione futura? E come? Esiste un “linguaggio adatto” per farlo?
Già Agostino suggeriva di modificare le nozioni apparentemente ovvie di passato, presente e futuro, considerando il presente del passato e il presente del futuro, insieme ovviamente al presente del presente. Le acquisizioni della moderna astrofisica, che propongono una visione diversa del tempo, meno rettilinea e più curvilinea, vanno in una direzione simile. Se dunque il tempo non è lineare, e neppure unico (esistono diversi nastri temporali: il nostro, che chiamiamo storico; quello che ci riconduce alla preistoria, e che ha caratteristiche profondamente diverse; il tempo del vivente, e quello geologico, e forse anche un tempo di cui abbiamo solo raramente percezioni dirette, quello dell’universo), il linguaggio della poesia è forse tra i più adatti a manifestarne le molteplici manifestazioni e stratificazioni. Mi è già capitato in un’altra occasione di citare un passo molto intrigante di Edmond Jabès, che traggo dal suo splendido “Libro dell’ospitalità” (a cura di Antonio Prete, Milano, 1991): «la lettera è selvaggia la parola è socievole». La socievolezza della parola ha credo a che vedere con la sua dimensione più umana e più storica; ma il carattere selvaggio della lettera, puro gesto e puro suono, ci riconduce appunto ad altre zone temporali dell’essere. E le due cose, socievolezza e selvaticità, abitano ugualmente il linguaggio della poesia.
Cinque poesie da Fiumi nefrite vortici
Airone dell’alba
Airone dell’alba, grigio di sangue rappreso
vola senza rumore sul territorio indifeso
sopra le case dei miseri che aspettano la guerra
sopra la terra e il frumento i fiori di prato e di serra
vola radendo la terra che fuma e si copre di nebbia
vola il tuo mesto volo sfiora chi attende in gabbia
i prigionieri e i fuggiaschi sopra le fosse dei laghi
Vola, tu.
*
Carnifices
C’è un paese nella pianura
lambito da un torrente.
C’è una chiesa dentro al paese
Più antica di tutte le altre.
C’è un affresco dentro la chiesa
salvato dalla corrente
dei secoli. Si vede un corpo
legato sopra una trave
un coltello che taglia la pelle
e rossa una scritta: Carnifices.
*
Cornacchia, roca amica di sventura, io ti guardo
mentre posi sopra i rami d’inverno
e becchetti sui prati e le strade.
Dicono che tu sia intelligente,
parente povera del corvo.
Io che non so più niente
seguo il tuo breve volo, sento il torvo
gracchiare con cui annunci ciò che stride
e minaccia qualcosa nel mio protetto interno,
nell’estremo paesaggio cui mi affaccio e mi sporgo.
*
A che punto, vorrei chiedere loro,
a che punto è la notte signori, quando entrano cauti o incauti
e mi toccano voltano asciugano,
a che punto è la notte, signori,
guardiani, custodi, sentinelle, se ci sono ancora stelle o la caligine
si è sdraiata per sempre sul mondo,
a che punto della notte è la pantera
sinuosa che corre verso l’alba, che striscia sul fondo
del sonno, s’intrude nei sogni o nei deliri della vertigine,
perché non parlate? E l’alba c’è? Posso dire che c’era,
una volta, almeno? Angeli, angeli chimici, energie
silenziose – benefiche, malefiche – e pazienti,
aspetto una risposta, un tintinnio di siringhe, qualcosa.
A che punto è la notte, se forse già dormo?
È fiorita la rosa?
*
Anche le stelle in questo cielo più largo del solito
cambiano posizione si dispongono
in vaste costellazioni indecifrabili. Sono luci
in viaggio da miliardi di anni
oltre ogni nostra immaginazione.
Adesso giungono
davanti ai nostri occhi
alte sui passi notturni, sui deserti
a dirci nuove inquietudini
forse nuove ragioni, nebulose.
*
In copertina: Les Noix (2014) by David Altmejd


Una replica a “Fiumi nefrite vortici – Intervista a Fabio Pusterla”
il verso celebre di Isaia “a che punto è la notte sentinella?” Fu di ispirazione per un libro molto bello di Fruttero&Lucentini intitolato nello stesso modo
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