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Il silenzio come voce nell’esordio narrativo di Mona Arshi

Di Alice Fontana

 

È un flusso di coscienza che vorrei provare a raccontare, quello che ha accompagnato la lettura de Il silenzio è la voce che ho scelto, di Mona Arshi.
L’autrice porta con sé nella prosa l’impronta originaria della poesia: un’attenzione alla parola, al ritmo, al non detto. Con questo libro, edito da 8tto Edizioni e segnando il suo esordio narrativo, sceglie una forma di racconto frammentata, che si discosta consapevolmente dal modello del romanzo tradizionale.
Le sue pagine si compongono di brevi frammenti, di squarci che più che narrare sembrano evocare, lasciando al lettore il compito di colmare gli spazi vuoti, di ricucire ciò che resta sospeso.
Eppure, proprio attraverso questa struttura discontinua, il libro riesce a insinuarsi con forza e delicatezza nell’interiorità di chi legge (almeno, così è accaduto per me), toccando corde che la linearità di un racconto più convenzionale forse non avrebbe raggiunto. Tra le pagine seguiamo Ruby, una bambina di nove anni, figlia di immigrati indiani che prova a rimanere a galla, scissa  fra dinamiche familiari che abbracciano la vivacità della sorella, ma anche  la malattia della madre, mentre saltuariamente appaiono la zia, la nonna e alcuni amici conosciuti a scuola.

 

 

Dal razzismo, alla morte, ai primi sentimenti che fanno battere il cuore, Ruby vive dentro di sé la vita iniziando pian piano a decifrarla.
La bambina incarna le paure, le incertezze e le decisioni che la oltrepassano, immersa in un mondo che procede troppo in fretta per concederle il tempo di comprendere ciò che sente.
A un certo punto, senza preavviso né spiegazioni, compie un gesto radicale: sceglie il silenzio. Decide di interrompere ogni comunicazione verbale con l’esterno.
Non si tratta di una punizione, né di un’imposizione subita, è un atto deliberato, quasi di resistenza. Nel tacere, Ruby sembra reclamare uno spazio tutto suo, un territorio interiore dove finalmente le emozioni possono sedimentare, lontano dal rumore incessante che la circonda. Eppure, quando fuori il mondo corre e tu resti a guardare, dentro inizia uno scavo incessante e meticoloso, come se una voce latente urlasse da dentro, vicino a tutto quello che è stato sepolto dal rumore altrui. Una scelta che si schianta contro la società di oggi, in cui ogni persona sente di dover esprimere la propria opinione su qualsiasi accadimento, su qualsiasi porzione di verità.

 


È forse una necessità morbosa, quella di voler lasciare un segno nel frastuono collettivo?


 

I social, oggi, amplificano questo impulso: ci chiedono di esserci, di parlare, spesso senza avere davvero qualcosa da dire. Così cresce l’angoscia, perché tutto diventa eccesso, sovrastimolo e noi, a differenza delle macchine, non siamo programmati per reggere un simile rumore.
Rivolgere lo sguardo verso l’interno significa allora compiere un gesto di ascolto autentico: concedere attenzione solo a ciò che davvero conta, permettendogli di esercitare un potere consapevole sulle nostre emozioni. È così che, leggendo questo libro, mi sono ritrovata a riflettere su quante cose possano nascere dal chiudersi in sé. Spesso, da quel raccoglimento interiore germoglia un certo tipo di arte, il desiderio di reinterpretare il mondo secondo la propria sensibilità. È lo stesso impulso che mi ha portata, un tempo, a scrivere poesie: a cercare dentro di me ciò che fuori nessuno sembrava voler dire. Allo stesso modo, la protagonista di questo libro, dopo essersi sentita rimproverare a scuola «No, Ruby, no… questo non va bene. Devi trovare dei modi per controllare la tua immaginazione», sceglie di dare potere soltanto a quella. Perché è nell’immaginazione, e nel suo libero fluire, che lei trova il modo più autentico di comprendere il mondo. Credo di aver compreso, solo una volta terminata la lettura, che vive davvero in armonia chi riesce a trovare un equilibrio tra due tensioni opposte: da un lato, l’urgenza di esprimere la propria opinione su tutto; dall’altro, la capacità di interrogarsi se quell’opinione abbia davvero qualcosa da offrire al mondo.
È chiaramente utopico pensare di poter vivere in una società che sta in silenzio, però è stato bello guardare il mondo con gli occhi di Ruby per qualche centinaio di pagine.

 


Mona Arshi è nata a West London, dove vive tuttora. Ha lavorato per dieci anni come avvocato per i diritti umani per il gruppo Liberty, prima di conseguire un master in scrittura creativa presso la University of East Anglia e iniziare a scrivere poesie.La sua raccolta d’esordio Small Hands ha vinto il Forward Prize nel 2015 e i suoi versi e interviste sono stati pubblicati su The Times, The Guardian, Granta e The Times of India, oltre che sulla metropolitana di Londra. Il silenzio è la voce che ho scelto è il suo primo romanzo.


In copertina: Odilon Redon, Silenzio, 1900, pastello, cm 54×54, Moma, New York

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