Di Giulia Bocchio
Ana María Matute aveva undici anni quando nel 1936, negli Stati Uniti, Dave Fleischer dirige un toccante corto animato intitolato Somewhere in Dreamland. Il film, appartenente alla serie Color Classics di Max Fleischer, fratello di Dave, segnava per l’epoca un importante traguardo tecnico, fu infatti il primo cortometraggio dei Fleischer realizzato con il processo three-strip Technicolor, una soluzione capace di regalare allo spettatore una tavolozza di colori vividi e luminosi, qui però in perfetta antitesi con il pallore dei volti che compaiono in video e la depauperata stamberga in cui i protagonisti sono gettati.
Diventato un classico di Natale e ambientato durante la Grande Depressione contemporanea, il breve cartone, vede in scena uno spaccato sociale di toccante realismo: due fratellini poverissimi, in abiti logori e leggeri, troppo per il rigido inverno che attraversano, trascinando faticosamente un carretto pieno di legname raccattato per le strade, si fermano davanti alla vetrina di un elegante negozio di dolciumi, sono attratti come mosche a quelle montagne di zucchero. Provano a leccare il vetro che li separa dai dolci, ma si accorgono in fretta dell’inutilità del gesto, sanno che quel paradiso non è riservato a gente come loro. Una volta rientrati a casa, con le pance ancora più vuote, messi a letto da una madre altrettanto smunta, si addormentano.
Il dettaglio delle coperte bucate fino all’eccesso, più simili a reti da pesca che a drappi per ripararsi dal freddo, mi fa piangere ogni volta, sono forse l’immagine più dura del cartone, sono la resa della madre, quei fori sono la sfacciata metafora del numero costante e continuo di rinunce e soprusi ai quali sono costretti. Disegnato così quel tessuto, rappresenta un’esasperazione estetico-stilistica che in qualunque altro contesto avrebbe anche potuto strappare il tipico sorriso weird che regala il grottesco, ma qui, nella scena che vede i bambini sprofondare nella pienezza onirica di un sogno apparentemente impossibile, il sorriso assume i tratti della commozione. In questa “Terra dei Sogni” nella quale i due fratellini approdano addormentandosi — un universo fiabesco fatto di montagne di caramelle, fiumi di gelato e tavole imbandite — la fame, la paura, la tristezza e le preoccupazioni svaniscono, sostituite da un ovattato incanto infantile senza tempo. Sogni di questo tipo, una volta consumatisi, potrebbero acuire il divario fra il reale e l’immaginato, ma Somewhere in Dreamland ha un finale dal profondo valore umano, e che riscatta almeno in parte i buchi di quelle coperte.

Io non so dire se Matute, una delle più originali e influenti scrittrici di lingua spagnola del dopoguerra, abbia visto questo cartone, ma sicuramente ogni singolo racconto contenuto nella raccolta I bambini tonti avrebbe potuto essere il soggetto perfetto per l’immaginario di quei corti. E in effetti, fra questi racconti brevissimi e laceranti, riportati in libreria da canicola edizioni 1 – in una coerente veste grafica che associa la parola al disegno – compare La vetrina della pasticceria, un testo che racconta una storia affine a Somewhere in Dreamland, lo stesso dramma della fame, della disperazione e di quella posizione di impossibilità e stallo di fronte a un potenziale lusso, anche il più semplice visto dal nostro punto di vista oggi.
I racconti risalgono agli anni Cinquanta, un periodo in cui Ana María Matute stava instancabilmente esplorando le possibilità stesse del linguaggio, mentre sul versante privato la vita sembrava metterla di fronte a continue inversioni di marcia: nel 1952 la scrittrice sposò il poeta Ramón Eugenio de Goicoechea. Fu un’unione nata senza il consenso dei suoi genitori, i quali, contrari, arrivarono persino a diseredarla. Due anni più tardi nacque il loro unico figlio, Juan Pablo. Ma il matrimonio, presto incrinato, si rivelò tutt’altro che felice e nel 1962 Matute ottenne la separazione, ma non senza un contrappasso: perderà infatti l’affidamento del bambino, che non potrà più vedere per tre anni.
In questo lasso di tempo si collocano i suoi bambini tonti. Frammenti narrativi di vite disgraziate che lei stessa dichiarò di aver scritto su fogli sparsi, nei momenti più impensati (in un caffè, come dal dentista), non immaginando nemmeno che quelle storie potessero compattarsi per costituire un’opera a sé, sino a diventare il libro più caro all’autrice stessa.
Di diverso avviso la censura franchista, che senza giri di parole bollò e condannò così i racconti:
Sono veri e propri incubi. Così come i disegni, che sono di pessimo gusto. I bambini dovrebbero essere trattati con maggiore rispetto. Se verrà pubblicato, non si potrà evitare che finisca nelle mani dei bambini e che provochi loro un danno enorme.

Tutti i ventitré racconti hanno hanno come protagonisti i bambini e il mondo crudele dell’infanzia (Tu, sanguinosa, come la chiama Mari ma per ragioni letterarie ancora diverse), quella terra sconfinata fatta di ingenuità e sogni, di denti rotti e ginocchia sbucciate, di stranezze che trascendono la logica, di gesti che abbracciano la brutalità dell’istinto e la tenerezza cieca di chi ancora non pratica la malizia adulta.
Ma non c’è pace né salvezza per questi bambini tonti, per queste vite che subiscono sempre qualcosa, o qualcuno. Nessun finale alla Somewhere in Dreamland.
Crudeltà e predestinazione diventano un mix letale per le sorti di ogni microuniverso, sempre racchiuso in poche precisissime righe, l’equilibrio perfetto per non diluire troppo la portata oscura e inquietante dei fatti narrati, micro-cronache di morti accidentali o violente, di giovanissime vite sfiorate da sensibilità profondissime, portatrici di un realismo tragimagico che li rende esseri leggeri anche se gonfi per un annegamento o una testa spaccata, in simbiosi con una natura che abbracciano sino alla morte e che gli adulti non capiscono, non comprendono, non abitano.
Il 18 gennaio 1998, Ana María Matute lesse davanti ai membri della Real Academia Española il suo discorso di ingresso intitolato «Nel bosco», e da quel luogo creato dalle parole dispiegò, con la sua inconfondibile voce di narratrice, il mondo che l’aveva affascinata fin dall’infanzia. Quell’universo esistenziale – racchiuso in un bosco infinito, con chiaroscuri, creature, desideri, sogni, persone e personaggi misteriosi – era per l’accademica il mondo dell’immaginazione e anche quello della stessa letteratura. Un bosco nel quale si addentrava già da bambina, attraversando le profondità di un armadio, nel quale entrava come Alice nel Paese delle Meraviglie, attraverso lo specchio; o con gli occhi aperti, seduta nell’angolo buio della stanza delle punizioni.

Ma un paio di decenni prima di questo discorso, una profonda depressione si era insediata nella selva del suo immaginario, la voglia di scrivere s’era assottigliata, schiacciata da un senso di sospensione che le aveva impedito di pubblicare i suoi testi inediti, e in particolare quello che è oggi considerato il suo capolavoro, Dimenticato re Gudù 2 (uscito poi nel 1996 e da noi nel 1999), un fantasy storico in chiave mitica ambientato nell’immaginario regno spagnolo di Olaf all’interno del quale congiure, intrighi di ogni sorta e oblio scandiscono la già difficile vita di Gudù.
All’inizio di quel libro c’è una dedica non casuale, che va ad Andersen, ai fratelli Grimm e a Perrault e già questi nomi basterebbero a raccontare l’incantamento brutale dell’infanzia e di un’esistenza perennemente bambina perché, in fondo, ricorda Matute: Non bisogna nascondere nulla ai bambini, non bisogna trattarli come scemi, capiscono il mondo meglio di chiunque altro. Soprattutto le cose tristi. La gente si chiedeva: come ha fatto una ragazzina (avevo diciassette anni quando ho scritto Piccolo teatro) a conoscere così bene quella delusione della vita, quello scetticismo sull’essere umano? È stato perché avevo letto molto Shakespeare, Cervantes, Dostoevskij, i classici greci.
Ritrovare Matute in libreria in quello che è l’anno del suo centenario di nascita non è solo un omaggio, ma la riscoperta concreta di una letteratura (e di uno stile letterario) che buca il buio dei tempi.
D’altra parte nell’oscurità, Ana María Matute vedeva perfettamente.
In copertina: The Hell, artista anonim0, 1510-1520
Note
1 Per questo progetto grafico, Sara Antimi (Urbino, 1999), Alice Bartolini (Urbino, 1997), Matteo Braghin (Cuorgnè, 1999), Diandra Cannata (Modica, 1997), Ivalù Chantal (Verona, 1999), Alberto Falco (Bologna, 1999), Riccardo Fraccascia (Modena, 1997), Pastoraccia (Bologna, 1984), Emma Segat (Cavalese, 1998), Michelangelo Setola (Bologna, 1980), hanno condiviso l’uso della grafite, l’aver frequentato l’Accademia di Belle Arti di Bologna e il proprio immaginario.
Ogni racconto a fumetti è nato da una o più storie di Matute mescolate in una interpretazione personale. Il laboratorio è durato quasi un anno e ha previsto lo scambio reciproco dei materiali durante il processo creativo.
2 Questo testo va cercato nel mercato dell’usato ma va detto che la prima edizione italiana è ormai un cimelio, un po’ come Infinite Jest nella sua veste Fandango. Per curiosità, mentre scrivo questa nota, l’ho cercato su Vinted, lì ne esistono due copie, rispettivamente da 80 e 90 euro l’una. Aggiungo però una notizia, negli ultimi consigli di lettura di Vanni Santoni apparsi su L’Indiscreto, pare che Safarà ripubblicherà Gudù.

