Di Annachiara Atzei
“Ma è proprio questo che amo:
la possibilità di addentrarmi e soffermarmi
su domande che sento così cruciali e impellenti da accettare volentieri quello scambio.
Ogni volta che lavoro a un romanzo, porto il peso di quelle domande, le abito.
Quando le ho esplorate fino in fondo – e ciò non vuol dire che abbia trovato le risposte – sono arrivata alla fine del libro.
A quel punto, non sono più la stessa di quando ho cominciato,
il processo di scrittura mi ha cambiata, ed è da questa condizione che riparto”
Han Kang, Nella notte più buia il linguaggio ci chiede di cosa siamo fatti
Scrivere è porsi delle domande. Domande che derivano dall’empatia, dall’essere nel mondo e coglierne l’umanità e i significati. A volte, vuol dire anche che a quelle domande non si è riusciti a dare risposta. Eppure, nel frattempo, la scrittura ha agito, cambiando per sempre le cose: cambiando l’autore e il lettore. Questo è il senso – o almeno una delle tante riflessioni alle quali le sue parole aprono – del discorso che Han Kang ha pronunciato in occasione della consegna del Premio Nobel per la letteratura nel 2024 e che Adelphi ha pubblicato in un agile libro (nella collana Biblioteca minima) dal titolo Nella notte più buia il linguaggio ci chiede di cosa siamo fatti. Si tratta di un omaggio alla letteratura. E di un omaggio al linguaggio.

Han parte dal principio: racconta, infatti, del ritrovamento, in occasione di un trasloco, di un libriccino fatto a mano che riporta scritto in copertina: ‹‹Poesie››. All’interno, alcuni suoi versi di bambina – ancora ingenui e impacciati – tra i quali questi: “Dov’è l’amore?/ Nel tic-toc-tac del mio cuore./ Cos’è l’amore?/È il filo d’oro che unisce i nostri cuori”.
L’autrice coreana scopre, quarant’anni dopo, che c’è un legame tra quelle parole e la persona che è oggi: un filo luminoso le unisce. A cominciare da qui, intraprende la disamina sulla sua carriera di scrittrice (iniziata proprio con la pubblicazione di una raccolta di poesie) e su cosa ancora la muove, spesso con grande sacrificio della vita privata. Scrivere, per lei, ha reso di volta in volta possibile addentrarsi e soffermarsi su quesiti cruciali e urgenti, consentendole la maturazione e il cambiamento dal quale si è sempre spinta per avviare nuovi lavori.
Sono tanti i successi di Han Kang, conosciuta in Italia per La vegetariana, i racconti di Convalescenza, L’ora di greco, Atti umani, Non dico addio (tutti pubblicati da Adelphi). In essi, ha sempre tentato di approfondire temi dolorosi e difficili, con una priorità: il rifiuto della violenza. Lo fa, ad esempio, ne La vegetariana, in cui la protagonista respinge la sua umanità e l’appartenenza alla sua stessa specie, dapprima smettendo di mangiare carne e alla fine ingerendo solo acqua, come se fosse una pianta, in tal modo avvicinandosi ogni istante di più pericolosamente alla morte. Ma è possibile cancellare la violenza cancellando la vita stessa? Fino a che punto ci si può spingere perché ciò accada? Forse sopravvivere significa testimoniare la verità con la propria vita? Se così è, è necessario trovare un modo per stare al mondo e sopportarne le incongruenze, la durezza e l’indifferenza.

Intorno a questi ragionamenti nasce L’ora di greco, il suo libro successivo, in cui si affronta il tema della comunicabilità delle emozioni e della vulnerabilità degli esseri umani. Qui, l’autrice sceglie di farlo narrando la storia di un uomo che sta perdendo la vista e di una donna che ha dimenticato l’uso della parola: troveranno il modo di avvicinarsi l’uno all’altra attraverso il corpo (che tanta narrativa contemporanea esplora): il tatto, le mani, le bocche diventano quindi il tramite necessario a trasferire e far conoscere i propri sentimenti, mentre intorno la società fagocita tutto, consuma e scarta impietosa.
Han si pone le stesse domande anche in Atti umani – in cui si parla della carneficina, nel 1980, di Gwanju, città simbolo della Corea – nel quale fa memoria dei fatti accaduti e usa il passato come chiave di lettura di un presente difficile da decifrare. Oppure, ancora, in Non dico addio, dove descrive il massacro dei trentamila civili uccisi, imprigionati e torturati dal regime comunista coreano tra il 1948 e il 1949 per indagare il concetto di sofferenza come sinonimo di umanità e per lasciare accesa la speranza su un futuro che riesce ancora a immaginare illuminato.
In ogni storia che Han racconta, infatti, anche laddove sembra che la fiducia per l’umanità sia persa definitivamente e lo scenario descritto è violento, arido o spietato, a prevalere è invece un sentimento di fiducia poiché, tra le pagine, si intravvede la capacità dell’uomo di essere anche solidale verso i suoi simili. Si percepisce la capacità di amare. Le dicotomie volenza/mitezza, fiducia/disperazione, amore/morte, o ancora, ferocia/nobiltà d’animo, passato/presente attraversano, infatti, l’intera opera della scrittrice, mai appagata nei suoi dubbi e la cui coscienza è tormentata dalle contraddittorietà della vita ma allo stesso tempo mossa dalla voglia e dal desiderio di viverla appieno.
Come è possibile – si chiede – che le persone possano essere così rabbiose e aggressive ma anche schierarsi contro l’implacabilità del male dandosi aiuto reciproco? Di questo, si accorgerà il lettore: dell’attitudine di Han a osservare quella parte di noi che rimane indistruttibile a dispetto di tutto. Della corrente che, nello scrivere, attraversa il suo corpo e che, tramite le vicende narrate, si trasmette a chi legge, che è messo, quindi, nella condizione di percepire ciò che percepisce l’autrice. E, proprio per questo, amerà i suoi romanzi. Così intensi per le tematiche affrontate e così stupefacenti per il modo di raccontarle: con un linguaggio rarefatto e al contempo preciso che, tacendo sempre qualcosa e lasciando spazio all’intravisto, tocca le corde più intime e nascoste.
Proprio per questo, l’Accademia svedese ha così motivato l’assegnazione del Nobel: ‹‹Per la prosa intensamente poetica che si confronta con i traumi storici e che rivela la fragilità della vita umana, la consapevolezza unica delle connessioni tra corpo e anima, tra i vivi e i morti, e perché con il suo stile poetico e sperimentale è diventata un’innovatrice della prosa contemporanea››.
Il linguaggio è lo strumento di Han Kang. È attraverso il linguaggio che si può prendere consapevolezza del punto di vista di ciascuno. Al filo del linguaggio ha affidato le sue domande più vitali e le ha consegnate ad altri. Scrive, nel suo discorso: “Nella notte più buia il linguaggio ci chiede di cosa siamo fatti, insiste sulla necessità di immaginare i tanti punti di vista delle persone e degli esseri viventi che abitano questo pianeta; il linguaggio ci collega gli uni agli altri”. E aggiunge: “La letteratura, che si fonda sul linguaggio, possiede inevitabilmente una sorta di calore corporeo. E, inevitabilmente, leggere e scrivere letteratura vuol dire opporsi a ogni atto che distrugga la vita”. Ecco il vero significato del suo agire: contrastare la brutalità, salvare l’amore.
Che la letteratura abbia una funzione salvifica è testimoniato in ogni riga, e che lo faccia collegando tutti sul solco delle sensazioni vivide che si raccolgono nelle frasi è fatto altrettanto certo. Le creature viventi si rendono partecipi l’un l’altra dei loro universi interiori e fanno fronte comune contro ciò che può annientarle. Nel libriccino scoperto in soffitta, Han scriveva: “Dov’è l’amore?/ Cos’è l’amore?”. Ed è questo che – superato l’eterno conflitto tra sofferenza e bellezza della vita – si chiede, nonostante tutto, ancora oggi, condividendo con ciascuno la ricerca di ciò che, per lei, appare imprescindibile e vero.
In copertina: artwork by Sue Williams

