Di Annachiara Atzei
Due poli apparentemente opposti si fanno eco nella raccolta d’esordio di Matteo Tasca, pubblicata per Industria & Letteratura col titolo Un giorno di festa, nella collana Obtorto Collo curata da Riccardo Frolloni. Si tratta del sogno e del paesaggio, due “oggetti”, o, se si vuole, due idee, che si fanno spazio nitidamente nella mente dell’autore come entità da esplorare e esplodere.
Da un lato, il sogno, insondabile, congiunto da un ombelico all’ignoto (come scriveva Freud): la rappresentazione di un altrove nel quale siamo trasportati e in cui tempo, spazio e memoria si accavallano e si redistribuiscono senza soluzione di continuità. Tasca, qui, ne “racconta” più d’uno, in prosa e in versi – come si farebbe con un amico, quando una indecifrabile visione notturna non ci abbandona – e tutti hanno un denominatore comune: l’impossibile che diventa possibile in una realtà parallela, percepita inconsciamente, mentre si dorme (forse), eppure altrettanto vera. È questo il “giorno di festa”: ritrovare e ritrovarsi in un mondo perduto, che è andato via via sparendo. Ritrovare le persone e i riferimenti, ricostruirsi una individualità in cui si prova a ricucire gli strappi e ad accettare la mancanza: “Nella casa ai monti c’è una festa (…). Io so che è la mia festa, anche se tendo a dimenticarlo per non sentire la sottile pressione che mi mette il sapere di essere il festeggiato, per cui faccio finta che le persone siano qui solo per divertirsi”.
Dall’altro lato, c’è il paesaggio, inteso anche come lente di ingrandimento su di sé: “Per spezzare la paralisi del saperti/ sempre dall’esterno sei tornato/ di fronte al paesaggio, vuoi vedere/ che succede”. Sono luoghi di cieli azzurri, di foglie di ulivi, di potature bruciate e di tramonti estivi e tuttavia non si tratta di cartoline, né di panorami da contemplare, ma di qualcosa che ha a che fare col modo di ciascuno di stare al mondo o con il tentativo (talvolta riuscito) di dare forma e immagine a ciò che è già in noi. Il paesaggio, insomma, è identità, coincide con l’esperienza che abbiamo fatto e che facciamo delle cose, è una nostra stessa parte.
C’è da chiedersi come sogno e paesaggio convivano: cosa li accomuna? Cosa li tiene uniti? Forse sono entrambi luoghi di confine, soglie tra ciò che esiste dentro e fuori di noi. L’eccitazione necessaria per produrre una percezione. O desideri inespressi. In questo libro, trovano uno spazio necessario e coerente, mai in contraddizione l’uno con l’altro, e in ciò si scorge la capacità dell’autore di usare la parola poetica: non in maniera casuale, non per appropriarsi di storie altrui, anzi per consegnare al lettore una parte, seppure misteriosa, di sé.

Cinque poesie da Un giorno di festa (Industria & Letteratura, 2024)
PAESAGGIO I
Per spezzare la paralisi del saperti
sempre dall’esterno sei tornato
di fronte al paesaggio, vuoi vedere
che succede: ti incantano i riflessi
di sole tra le foglie degli ulivi,
sembra quasi che qualcuno ci abiti lì dentro.
E poi la zona indefinita dove la radura
incupendosi diventa bosco. La forza del vento,
ora, ad occhi chiusi,
è quasi un grido. Torna allora
un ragazzino, adolescenza assorta
(disadattato e rimbambito),
non conosceva le convenzioni né la sociologia,
voleva diventare un grande scrittore:
e insieme a lui, incerta sulle gambe, torna
una stagione sepolta della mia sensibilità,
sopravvissuta in un ghiacciaio ad alta quota –
sono ancora vivi e vedono attraverso i miei occhi,
sovrappongono immagini a fantasie. Dura poco,
un paio di minuti. E tu che i ricordi
non li amavi… c’è un popolo là in fondo.
E una voce che singhiozza in un pozzo,
prende spesso fiato, parla raramente.
*
PAESAGGIO IV
Dopo molti giorni di pioggia oggi è tornato il sereno.
Il cielo è grande e azzurro
come un blocco di marmo
e nell’aria c’è un tepore che risveglia
il corpo alla promessa di una minuscola primavera
nascosta dietro la schiena
di questo novembre. Vorrei poter dire
che il corpo è più vasto della mente,
ma io vivo dentro la mia mente
e spesso ne dimentico i confini.
Questo cielo per esempio significa una stagione
irreale, e non è più questo cielo
tradito in un lampo di piacere, ma un cielo mio,
pensato per la mia gioia.
Chiudo gli occhi per dare spazio alle cose,
farmi da parte è la forma di fedeltà
migliore che conosca. Quando li riapro
il cielo è ancora grande e azzurro.
*
PAESAGGIO V
Nella vallata, dalle parti di Collacciano
o San Bartolomeo, bruciano le potature:
sono quattro o cinque piccole colonne di fumo
che il sole basso del tramonto,
abbagliandomi, mi sottrae per un istante
e mi restituisce più accese,
circonfuse di una luce che è gioia
e bruciore negli occhi –
mi restituisce la visione parziale
di un’estate totale, un sogno
d’interezza sognato in passato,
creduto falso, dimenticato e ora
tornato a me come una fantasia,
meno, il ricordo d’una fantasia
di un altro che come me adesso
guardava le potature bruciare
da questo balcone.
Penso ai rapporti che esistono tra il tutto
e le parti, penso che se sommi i fuochi
non trovi il fuoco centrale, ma torni
ai singoli fuochi, identici segnali
di vite irrelate. Come tutto è poco, penso.
E come è difficile pensare che le parti
sono imponderabili, come le persone,
o come un’ora d’estate in cui ormai
il tramonto è completo, un’ombra
s’intromette fra lo sguardo e il paesaggio
dove i fuochi resistono appena
e a te sembra di amarli di più.
*
SOGNO NUMERO 6
Nella casa ai monti c’è una festa, anche se non è proprio casa ai monti, la sala è molto più grande e alta, al centro c’è una scalinata sulla quale a turno si esibiscono dei cantanti. Io so che è la mia festa, anche se tendo a dimenticarlo per non sentire la sottile pressione che mi mette il sapere di essere il festeggiato, per cui faccio finta che le persone siano qui solo per divertirsi. Ci sono anche i miei parenti, un po’ in disparte verso l’entrata della grande sala, sono tutti in piedi di fronte al muro, mi avvicino a loro e per scherzare dico che sembra stiano aspettando di essere fucilati, mi sembrava una battuta simpatica anche se poi ho pensato che poteva essere fuori luogo. Qualcuno di loro ha riso timidamente, altri hanno fatto finta di niente. Seduto al tavolo c’era solo zio Gui, non mi aspettavo venisse anche lui, e poi una donna che non conosco, sulla quale a un certo punto si siede nonno Gino, che sembra tornato bambino e ride molto, è contento e si mette a fare il cavalluccio sulle gambe della sconosciuta. A un tratto vengo fulminato dall’idea che non devo sedermi anche io, che il tavolo è il posto dei morti, e per questo lì intorno c’è solo zio Gui e il nonno che si siede e si rialza, e tutti i parenti guardano tristi in quella direzione.
*
LE SEI DEL POMERIGGIO
Luce, luce come oro a valanghe
oltre la sopraelevata, pentecoste
di fuoco che scotta la vista,
tu gloria delle sei del pomeriggio
dentro il giorno cattivo sei l’esca,
la cosa buona nella trappola,
salve regina sfacelo aprile.
Il tuo splendore mi fa pensare
ai disastri autostradali, alle macchine
che investono i pedoni;
ma in te ogni cosa è calma:
una perturbazione momentanea,
e poi ancora bene, va tutto bene.
Qui non succede mai veramente qualcosa.
È già troppo questa meraviglia.
Davvero è solo questo: le sei del pomeriggio,
una luce appena primaverile, due occhi
per essere contento, una sopraelevata.
Ho il cuore pieno d’amore e non è per nessuno.
*
Matteo Tasca (Anagni, 1993) ha conseguito il titolo di dottore di ricerca in Lettere presso l’Università degli studi di Siena. Attualmente lavora come redattore per il settore universitario della Mondadori Education. Suoi testi sono usciti su Formavera, Nuovi Argomenti e sul terzo volume dell’antologia Poeti italiani nati negli anni ’80 e ’90.


Una replica a “Farmi da parte è la forma di fedeltà migliore che conosca – Il giorno di festa di Matteo Tasca”
Grazie per averne condiviso la caratura.
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