Di Gabriele Doria
Le agiografie dei santi sono colme di coincidenze, fondano su di esse parte del loro potere incantatorio: è un eterno ritorno del banale. Non fa eccezione la vicenda di Santa Rita da Cascia, la Santa dei casi impossibili, dalla vasta popolarità e dalla notevole esiguità di certezze storiche. Quasi a volere rifiutare il perimetro stabile di una data, la parabol(ic)a del vuoto è inscritta, in dialetto umbro quattrocentesco, sulla bara, la “cassa solenne” (contenuto per contenitore, visione plastica di una metonimia), dove è rappresentata l’immagine più antica della santa, risalente nel migliore dei casi allo stesso anno in cui è morta, anzi, ascesa.
La vicenda di Rita da Cascia è una classica vicenda medioevale centroitalica, si innesta sugli scontri guelfi-ghibellini, le pressioni degli infedeli, una più che discreta quantità di performance miracolose, vendetta e giubilo, grazia e dannazione. Nella fattispecie, la giovinetta solo dodicenne viene presa in moglie con la forza da un signorotto locale orgoglioso e irruento, ovviamente di fazione ghibellina, ovviamente destinato a venire traviato miracolosamente dalla vicinanza della moglie. Ma proprio quando decide di restituire i proventi di un’azione violenta, i compagni di costui reagiscono in modo improvvido, e lo uccidono.
Rita, che può almeno considerare di avere fatta salva l’anima del marito al momento opportuno, deve però subito barcamenarsi tra i due figlioli, ansiosi di vendicare di spada la dipartita del padre. La madre prega così tanto il Signore che i due finiscono polverizzati dallo stesso fulmine, prima che potessero compromettere la virginea innocenza lordandosi di un’azione turpe.
È il trionfo del bene.
Rita potrebbe così assecondare il vecchio sogno – mai sopito – di entrare in convento (quello di Santa Maria Maddalena presso Cascia, alla cui costruzione concorse lei stessa grazie ai denari del marito), ma sembra che per vecchi rancori, legati alla famiglia del defunto e alla vendetta mai riscossa, sia rifiutata a più riprese. Qui accade il prodigio: trasportata dai suoi tre patroni, il Battista, Agostino d’Ippona e Nicola da Tolentino, Rita s’invola dallo scoglio di Roccaporena, dove era solita pregare in solitudine, per catapultarsi direttamente dentro il convento.
Questo volo, o questo salto nel vuoto, immagine kierkegaardianamente della fede, stabilisce un’altra coincidenza, se si vuole, miracolosa, con i tentativi di volo (e di vuoto) di uno dei più grandi artisti del Novecento, Yves Klein. Questo non solo per la celebre performance, realizzata dalla palestra di Judo da lui abitualmente frequentata, e immortalata nella foto dell’illusione riuscita in cui sembra che l’artista, invece che cadere, stia invece assurdamente librandosi verso l’alto (Salto nel Vuoto, appunto, del 1959), e neanche dalla coincidenza quanto mai provvida del fatto che ora, abbattuto da tempo il palazzo, sorga al suo posto proprio una chiesa intitolata a Rita da Cascia.

La più grande coincidenza è rappresentata da ciò che si scoprì decenni dopo la morte dell’artista, quando durante alcuni lavori di restauro a Cascia venne chiesto alle monache se si trovassero in possesso di foglia d’oro necessaria a certi lavori, e venne allora candidamente riportato alla luce dopo una breve ricerca uno straordinario ex-voto dedicato proprio da Yves Klein alla santa dei casi impossibili, con accluso testo manoscritto su sette fogli di carta tenuti insieme da un sottile filo di cotone.

Non deve sorprendere la svolta mistica di chi per tutta la vita ha rincorso il vuoto: la parabola di Klein si distingue sui manuali per il rifiuto, sprezzante e pedissequo, della tela, a favore di una “sensibilizzazione quasi elettromagnetica di un intero ambiente”[1], per lasciare quindi la dimensione fisica e invadere quella psichica, o ancora, metapsichica. È da leggere in questa direzione l’elezione del colore supremo, a cui ha dato il nome, il Blue Klein, il colore cosmico, quando si era ancora ben lontani dai balocchi concettuali di un Anish Kapoor; a pensarci bene anche le famose antropometrie in cui una modella veniva spalmata di blu e stampava poi il proprio corpo sulla tela, possono, in modo decisamente pop (ma la Body art è diventata frusta, oggi) ricordare una sindone.
Con tutto ciò, Klein non si può certo definire un cattolico in senso letterale: la sua è la (s)visione
eterodossa di un Meister Eckhart, in contrasto col dogma occidentale dell’impossibilità dell’immagine di emanare il divino. In una pagina di straordinaria confessione estatica citata da Martin Buber, il mistico tedesco scrive:
Ho valicato tutte le montagne e ogni mia facoltà, fino all’oscura forza del Padre.
Lì udii senza suono, vidi senza luce, emanai odori senza muovermi, gustai ciò che non era, tastai ciò che non esisteva. Allora il mio cuore si fece senza fondo, la mia anima senza amore, il mio spirito senza forma e la mia natura senza sostanza.
È una possente parabolica del vuoto.
Yves Klein, il sacerdote (eretico) del Nouveau Réalisme si è, nelle parole di Cioran, inginocchiato di fronte all’Assenza, un’assenza coltivata da sempre, dall’infanzia a Nizza, in cui sembra che il culto della santa degli impossibili sia stato instillato da una parente, ovvero la zia Rosa Raymond-Gasperini. Ed è così che nell’ex voto in tre colori, blu, rosa e oro, i tre colori della Vergine Maria, una trinità di fiamma, leggiamo l’iscrizione:
Santa Rita da Cascia, Santa dei casi impossibili e disperati, grazie di tutto l’aiuto così grande, decisivo e meraviglioso che mi hai dato finora. Infinitamente grazie. Anche se non ne sono personalmente degno, aiutami ancora e sempre nella mia arte e proteggi tutto ciò che ho creato affinché, nonostante me, sia tutto, sempre, di Grande Bellezza. Y.K.
Sotto la protezione della Santa, l’artista pone:
la sensibilità pittorica, i monocromi, gli IKB, le sculture-spugna, l’immateriale, le impronte antropometriche statiche, positive, negative e in movimento, i sudari. Le Fontane di Fuoco, d’acqua e di Fuoco, l’architettura dell’aria, l’urbanistica dell’aria, la climatizzazione degli spazi geografici trasformati così in Eden permanenti ritrovati alla superficie del nostro globo, il Vuoto.
Lo stesso ex-voto è realizzato con tre lingotti d’oro fino, ricavato della vendita delle prime quattro Zone di sensibilità pittorica immateriale, raccolte sotto il nome di Le Vide (Il Vuoto), spazio puro, impregnato della Sua presenza (ma di chi? Dell’artista, dell’immateriale Grande Bellezza che intendeva costruire? Di Altro?). Racconta Pierre Restany che se l’acquirente era disposto a bruciare integralmente l’assegno, cioè il suo titolo di proprietà, l’oro che aveva pagato veniva restituito al cosmo. Nel caso contrario parte dell’oro veniva gettata nella Senna e il resto ritornava momentaneamente a Klein che ne era precario e provvisorio depositario.
Non è finita ancora: collaboratore e amico di Yves Klein, lo scrittore Dino Buzzati partecipa a queste performance di cessione del vuoto (a testimoniarlo, una bella foto scattata a Parigi nel 1962, dove sul Pont-au-Double Klein sta gettando nella Senna foglia d’oro, aiutato da Buzzati).

Ma anche Dino Buzzati è devoto alla Santa degli impossibili: il suo ultimo libro, I miracoli di Val Morel, pubblicato nel 1971 a pochi mesi dalla morte, è una raccolta di miracoli ‘inediti’ attribuiti alla Santa. Si tratta di trentanove brevi racconti, accompagnati da dipinti dello scrittore, immaginari ex voto, “pagine sbilenche”, “cari ricordi”.
La Santa di volta in volta impedisce al lupo di mangiare Cappuccetto Rosso, si trasforma in un gigantesco Topo per stornare il Gatto Mammone, protegge un paese da una gigantesca Balena Volante, scaccia con la scopa il malvagio Vecchio della montagna, dissuade dal bere un alcolizzato venendo fuori da una bottiglia di whisky alta quindici metri.
E parlando di Blue Klein e di Rita da Cascia, il pensiero non può che toccare Blue, il commovente film estremo di Derek Jarman, realizzato da quasi cieco, quando un’infezione causata dall’AIDS gli permetteva di vedere soltanto in toni di blu. Il film è un unico fotogramma vuoto, di colore blu, mentre il sonoro straborda l’ironia e la furia lieve della voce debole del regista, che consegna al cinema il proprio ultimo lancinante sguardo sul vuoto. Il film è dedicato da Jarman a Santa Rita da Cascia.

Si narra che Rita morì durante un inverno rigido, già preparata alla morte dai suoi tre patroni, e con una delle spine della corona di Cristo conficcata nella fronte: chiese alle consorelle che la assistevano due fichi secchi e una rosa rossa. È il folle regalo chiesto da Belinda, ricordato da Cristina Campo ne Gli Imperdonabili: “Una rosa, solo una rosa, in pieno inverno.”
È la rosa che fa cantare il vuoto.
Note:
[1] R. Barilli, L’arte contemporanea (Feltrinelli), cit. p.292.
In copertina: Santa Rita da Cascia, Scuola Italiana, XVII Secolo


Una replica a “Salto nel vuoto: Yves Klein e Rita da Cascia”
Molto interessante. Denso. Lo rileggerò ancora e ancora.
"Mi piace""Mi piace"