Di Giorgio Castriota Skanderbegh
Metà anni Novanta. Un ragazzo aspetta il silenzio intorno a lui, poi si alza dal suo letto ed esce dall’istituto di cui è ospite, attento a evitare cigolii; sulle spalle uno zaino pieno di pietre.
Si apre così il romanzo Shy di Max Porter, uscito per Sellerio con la traduzione di Federica Aceto.
Non ci sono dubbi sull’argomento: Shy, che è il nome del ragazzo che porta il misterioso fardello, un nome che pare una condanna in una sillaba sola: Shy, timido, schivo, diffidente. Un nome parlante, certo, ma che non esaurisce la caratterizzazione di questo personaggio che Porter ci offre e di cui possiamo leggere la mente senza intermediari.
Shy è un ragazzo che le etichette sociali devono definire problematico, ma finita l’infanzia — in cui i guai sono poco più che scolastici — ha scoperto la violenza. Il suo futuro è già scritto, sembra. Shy viaggia nella sua vita a folle velocità, irraggiungibile da sua madre, che vede il suo bambino tirare cornate come un toro e non capisce perché, dal patrigno che cerca di penetrare la cortina e forse aprire uno spiraglio di pace nella famiglia in cui si è inserito, dagli esperti della sua età, i quali però la sua età non l’hanno più; la scuola per Shy è un continuo test di relazioni sociali, con i compagni, con i ragazzi del luogo, e soprattutto con le ragazze. Nell’indagine di Max Porter l’adolescenza maschile riceve un’attenzione quasi inedita, non perché non fosse stata indagata in altri modi e in altri tempi, ma perché la voce di questa adolescenza è quanto di più autentico si sia scritto nella letteratura post-salingeriana sul tema.

Shy incontra i bulli del quartiere, Shy azzanna, Shy apre la fronte di un suo coetaneo con una bottiglia rotta, Shy incontra le ragazze, Shy non è al primo colpo un dio del sesso, Shy brucia di umiliazione che deve, deve, venire fuori come magma che spinge, Shy fa sesso con “quella ragazza” e senza alcun motivo la colpisce così forte che le provoca un livido da sanguinamento interno sulla coscia. Shy è impossibile, e così viene mandato nell’istituto Ultima Chance, ed è da lì che lo vediamo uscire con addosso uno zaino pieno di pietre.
La vita di questo romanzo non scaturisce solo dalla impellente attualità del tema — e delle sue tragiche conseguenze per le vite e le libertà delle giovani donne che incontrano questi giovani uomini — ma anche e soprattutto dalla sua lingua. Il distacco di Shy dal mondo degli adulti che lo circonda è prima di tutto linguistico; per stare al passo col suo cervello in atomico fermento Shy urla nella sua testa per zittire le voci della madre, le voci degli insegnanti e dei terapeuti che gli sillabano il suo senso di colpa. Per questo il ragazzo frammenta, distorce, interrompe i suoi pensieri e li presenta come sul palco dei suoi sogni, quello della sua amata drum’n’bass di cui lui è il DJ. Pensa in 170 bpm, pensa in rima, pensa in slogan da raver, eppure non riesce a stare lontano dalla profondità che tocca con la punta dei piedi per paura di precipitare. Ne risulta un romanzo dalla lingua potente, rara, caotica, oscenamente sincera e originale.
I grandi, però, ne parlano un’altra: dal muro dietro il quale è rifugiato, Shy deve affrontare continuamente le domande sbagliate: perché, Shy? Perché lo hai fatto? Perché hai rovinato un’altra giornata in famiglia?
Shy non lo sa il perché, come non lo sanno i grandi che cercano di aprirlo come un complicato gioco di abilità. La risposta è una sola, in effetti, e si ottiene parafrasando il titolo del film premio Oscar di Kwan e Scheinert: Everything everywhere all at once — Tutto dappertutto tutto in una volta. In una recente presentazione/performance del romanzo nella libreria belga Passa porta, Max Porter stesso ha così descritto (parte del)la interiorità del suo ragazzo-titolo: «Il bombardamento, l’assillo è uno degli strumenti dell’orchestra della depressione di Shy, della rabbia di Shy».
Questa è allo stesso tempo la ragione e il risultato della vita di Shy, e della violenza che nel libro accade, semplicemente è, passa come un treno di cui nessuno sa la provenienza ma di cui tutti (gli adulti) conoscono la destinazione. L’adolescenza è spesso sorda all’empatia, tanto che davanti a quella fronte che si apre come una sacca sospesa, e da cui sgorga il sangue, Shy riuscirà solo ad abbassare la testa e a desiderare di tornare a una mezz’ora prima, a quando non era nei guai; neanche l’adolescenza, però, può ingannarsi a lungo, e Shy intervallerà spesso la sua raffica di pensieri con «Mi dispiace». Shy, nella notte che «è enorme, e fa male» si dirige con uno zaino pieno di pietre, che al lettore appare sempre meno misterioso, verso un laghetto, poco più di una pozzanghera, che si trova nei terreni dell’istituto. Anche l’Ultima Chance sta per chiudere, per fare posto ad appartamenti di lusso; anche la sua Ultima Chance sta per mollare di fronte a quello stesso panorama socio-economico che crea le alienazioni di cui soffrono i ragazzi lì mandati. Devi crescere, devi trovarti, un lavoro, devi sposarti, è quella la vita.
Ma quella vita non è per tutti, e i ragazzi ai margini che trovano nell’istituto ultima oasi prima del deserto la combattono come possono. Nella grande, matta lotta, tutti i suoi “episodi” sono accaduti, e sono parte della mitologia di Shy tanto quanto lo sono le accortezze di sua madre che per calmare i suoi terrori notturni, per tranquillizzare suo figlio che si agita nel letto, alza e sventola la coperta, raffredda il ragazzo incandescente finché ne è capace.
Shy contemporaneamente riceve tutta la violenza del mondo e ne è dispensatore, e si troverà ad affrontare con un vocabolario emotivo carente la successiva vergogna, il rimorso, il sordo senso di colpa.
Nel suo percorso verso la sua fine, verso quel laghetto che sporco e placido riflette la notte, il ragazzo non solo è tutti i ragazzi, ma è tutto il mondo; proprio come lo ha inteso Max Porter, che racconta del sogno che ha fatto, e che sta alla genesi del romanzo: un ragazzo poroso, attraverso cui passano le altre persone, le piante, gli animali, le pietre, i fantasmi. Perfino in questo ragazzo fatto di altro, però, rimane una scintilla di speranza. In fondo Shy aspetta un altro giorno, ma un altro giorno per cosa? Per cominciare finalmente la sua vita o per concluderla? Se David Foster Wallace in Caro vecchio neon si racconta una storia per intimare di stare zitta a quella parte di sé che proprio non vuole tacere, allora Shy cosa si racconta? Cosa può portare finalmente il silenzio e il sonno a questo ragazzo elettrico? Niente, oppure Tutto dappertutto tutto in una volta.
Dopo Lanny, Sellerio riporta in Italia uno degli autori più stimolanti della contemporaneità britannica.
In copertina: artwork by Pax Paloscia


Una replica a “Shy, o l’infinito bruciore di quando non riesci a stare seduto”
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