, ,

Fino al morire della morte – I sudari di David Cronenberg

Di Gabriele Doria

 

Che non è nero ancora, e ‘l bianco more
Dante, Inferno XXV, 66

 

La prendo un po’ alla lontana, ma prometto di metterci soltanto una vita intera.
Il poeta Corrado Costa, nella raccolta The Complete Films (1983), immagina una pellicola intitolata Vita di Lenin, che riproduce il “tempo naturale” della vita, compresi i sogni e le insonnie, le “occasionali conversazioni alla fermata del tram e i lapsus”, della durata di cinquantaquattro anni. Il film, per apprezzarlo appieno, sarebbe da vedere almeno due volte.

Il cinema ha affrontato la morte in molti modi: in modo favolistico e buffonesco, compiaciuto e ottusamente serioso, morboso, rigoroso (e quindi finto). Infiniti sono gli esempi di favole sui tanti possibili al-di-là, come lo splendido Heaven can wait di Lubitsch, o Scala al Paradiso della coppia Powell-Pressburger, per arrivare fino al Ghost di Jerry Zucker.
Ma affrontare (eroicamente? Forte della propria immortalità di celluloide?) la morte è un’espressione ridicola: si confonde la morte-tema con la morte-morte, affrontata forse nel senso di offesa.
Eppure innumerevoli sono gli esempi di attori o registi in procinto di morire colti nel momento del congedo o quasi, durante il lungo addio: The Long Holiday, di Johan Van der Keuken, la “Lunga vacanza”o lunga fuga attraverso i continenti e attraverso i frame, presa dal regista dopo avere saputo che il tumore non gli avrebbe lasciato che pochi mesi; o la Signora Ceppo interpretata da Catherine Coulson nella terza stagione di Twin Peaks (“Hawk, my log is turning gold. The wind is moaning. I’m dying…”); fino a Lampi sull’acqua, dove Wim Wenders accetta di filmare gli ultimi giorni di vita del grande Nicholas Ray, il quale accetta che il finale del film coincida col suo personale finale (e urla, e comanda ancora: “CUT!”). Jason Robards, nel (fin troppo) programmaticamente stentoreo Magnolia di P.T. Anderson, interpreta un vecchio magnate malato di cancro ai polmoni all’ultimo stadio (proprio come l’attore), letteralmente dal letto di morte. La lista sarebbe inquietantemente lunga.

Sovviene una frase di Jean Cocteau: “Il cinema come morte in atto”. Il cinema come parabola della consunzione, più o meno esplicita, più o meno morbosa, come per Clark Gable, Marilyn Monroe e Montgomery Clift, non a caso riuniti tutti e tre insieme per The Misfits di John Houston. Tre corpi allo stremo: per Gable fu l’ultimo film (morì per infarto dodici giorni dopo la fine delle riprese); per Monroe fu l’ultimo film finito (non completò mai Something’s Got to Give di George Cukor, di cui esiste solo la prima mezz’ora, oggi reperibile su YouTube1) e il terzultimo per Montgomery Clift, che un terribile incidente aveva lasciato sfigurato nella sua bellezza iper-carezzata dalla macchina da presa. Ma il cinema ci ricorda la morte anche quando i divi li presenta all’apice della loro giovinezza: non è così per James Dean, per River Phoenix, per i tanti rebels without a cause resi immortali su pellicola? 

Il cinema, doriangrayscamente, ci rende immortali nel momento in cui ci sottrae a noi stessi, in cui ci canonizza.

Uno dei più grandi registi del Novecento, Fred Wiseman, nel monumentale “documentario” (ma il termine, per Wiseman, non ha più alcun senso)  Near Death, di 358 minuti, circa sei ore della vita di chi guarda, filma i moribondi dei reparti ospedalieri. Un’oggettività programmaticamente estenuante, una distesa, infinita (ma anche questa non è che una parola) cattedrale del morire.Eppure si è sempre, appunto, near Death. Il cinema la morte non la filma, la insegue, non si tratta dell’attimo realmente decisivo/irrilevante, quello della sparizione, che filosoficamente non ci appartiene, o dove noi non siamo, ma di abitare la consunzione. Questo è ciò che fa il cinema: millanta la propria immortalità, la coltiva, ma è un’immortalità fragilissima, che si sgretola, ridicolmente tronfia: la pellicola si deteriora, infiniti sono i film distrutti, bruciati, dimenticati; infiniti saranno i film perduti eppure “presenti” del futuro, ora che l’immagine ci attraversa con velocità inaudita.


O forse è il cinema stesso a essere il morto?


In una pagina di intimità sconcertante, Paul Valéry negli anni Trenta ammetteva come per lui il cinema fosse l’espressione di una malinconia senza fine, perché film dopo film, visione dopo visione, si rendeva conto che nulla di ciò che vedeva fosse realmente “per la prima volta”, concludendo: “Sto imparando l’avvenire a memoria.
Il cinema non può che essere la visione del già stato, del già morto? Il set come “natura morta” di cui parlava Carmelo Bene, e il cinema come aborto, morto sul nascere; così tutto Fellini non sarebbe altro che “autocompiacimento”, possiamo dedurre, necrofilo (“non è né un grande acrobata né un vigile del fuoco: è, ahimè, un cineasta”).
Ma il cinema non è solo quello inventato dai fratelli Lumière, lo sappiamo: lo si può rinvenire nelle caverne preistoriche, tracciato col sangue, lo si può far bruciare – così Werner Herzog , in Cave of Forgotten Dreams, vediamo che è già cinema il toro ucciso dal guerriero dalla faccia di uccello, dipinto in una caverna, che pare smuoversi alla luce delle torce, e così Sergej Michajlovič Ėjzenštejn, che nei suoi diari annota di quando in un Museo Archeologico Messicano assistette, durante un momentaneo black-out, al risveglio di divinità antichissime, che vibravano alla luce di un fiammifero. È ancora il buio e ancora la luce, in cui danza ciò che in realtà dovrebbe star fermo.

 

Cave of Forgotten Dreams

 

Edgar Morin scriveva che “l’arte del cinema, l’industria del film non sono che le parti emerse alla nostra coscienza di un fenomeno che dobbiamo tentare di cogliere nella sua interezza”.
Non sappiamo neanche dove andrà a finire, o forse dove andrà a incominciare, come si può leggere nel meraviglioso delirio sul “Cinema vivente” del poeta del diciannovesimo secolo Saint-Pol-Roux, che prediceva un cinema solare, in grado di far tornare in vita i corpi2
Non è che il cinema sia ossessionato dalla morte, è che proprio non è possibile la disgiunzione.

È chiaro che si arriverà a uno scontro, uno qualsiasi: d’altronde, il cinema è “un campo di battaglia”, come risponde il regista Samuel Fuller al bandito delle undici, imbucato a una festa casuale e fatale, come tutto ciò che si vede nel rettangolo luminoso (Pierrot le fou, Jean-Luc Godard). E sarebbe ora anche di sfatare un mito: a quella sorta di baraccone per illusionisti messo su dai fratelli Lumiére, la prima visione che doveva terrorizzare quei primi “spettatori” non fu il famoso treno che arrivava dal futuro (un futuro, ormai abbiamo capito, già passato. D’altronde i futuristi rimasero delusi dalle prime opere dei Lumière). Prima, lo ricorda Enrico Ghezzi, fu mostrata l’uscita degli operai dai cancelli della fabbrica (a suo modo un’altra utopia, forse)3. Così si potrebbe romanzare – e inventare – che gli spettatori siano scappati terrorizzati non dal treno muto, ma dallo sconcerto del reale registrato, come i pellerossa che credevano la fotografia potesse rubargli l’anima (e, in un certo senso, avevano certamente ragione).

È stata la prima volta, nella storia, in cui si è vista la vita rivista, o in cui la vita si è rivista vista, guardata, e quindi già tradita. C’è una forma di violenza immedicabile nella registrazione: è la violenza riformatrice esercitata sulla vita quotidiana. La registrazione implica un cambiamento di rapporto radicale col se,’ con la propria vita, con qualsiasi manifestazione della vita del mondo. Non c’è nulla di più parziale di uno sguardo. Ma questo, a ben vedere, è già cambiato: non ci appartiene più tanto quell’esperienza, tipicamente ottocentesca, del buio, dell’esplorare, dello spostarsi per andare in un luogo definito, quasi sacrificale: oggi siamo nell’immediatezza, nella vicinanza onnicomprensiva che è un altrettanto immediata lontananza.


Quanto siamo disposti a concedere alla nostra angoscia?


Chlebnikov, il poeta viandante, compagno di Vladimir Majakovskij, raccontava che “nei nostri giorni di carestia”, durante i fallimenti della rivoluzione, per le strade si notavano due file: una per il pane, l’altra per il cinema. Paura e desiderio, come il titolo del primo rinnegato film di Stanley Kubrick. Nessuno vuole pagare un biglietto per star male, per riconoscersi nei mediocri burattini sullo schermo, per i fantaccini delle comiche, relegati in trincee non importa quanto vicine: il cinema ha questo straordinario potere di non farci riconoscere la nostra immagine, di farci credere che stiamo evadendo nell’Altrove, ma allo stesso tempo ci protegge, lo schermo, dalla sua intensità infestante, che sarebbe insopportabile (così la televisione, o la rete, con quelli che sarebbero snuff movies reali di massacri su base giornaliera, educandoci all’indifferenza alla differenza: l’allegria dei naufragi).
Il cinema, scrive Antonin Artaud, ha “la virtù di un veleno inoffensivo e diretto, un’iniezione sottocutanea di morfina”.
Così Chlebnikov, il grande poeta sovietico, sbagliava per troppa esattezza quando profetizzava che il cinema avrebbe portato a un avvenire più giusto: il violentatore, pone l’esempio, vedendo in prima fila rappresentare sullo schermo il delitto che ha commesso, circondato dalla riprovazione generale, sarebbe stato portato a riflettere sulle sue azioni. Vedendo le sale sempre più affollate fuori dai cinema, il poeta era convinto di una rivoluzione che invece sarebbe fallita.
Forse il cinema è compromesso con una forma di ingenuità fondante, una sopravvalutazione della propria forza. D’altronde si crede immortale.
Guy Debord nel suo film finale, In girum imus nocte et consumimur igni (1978), dichiarava: “Questo è un film che disprezza […] la polvere di immagini che lo compone”.
Se tutto ciò che viene comunicato dallo schermo è sostanzialmente opprimente, maligno, c’è una sola possibilità di salvezza: il dubbio, diffuso e prepotente, soprattutto verso se stessi. Mai fidarsi troppo del cinema. Debord è morto suicida, come altri registi, smarcatisi dalle gabbie mobili dei frame per uscire anche dal fuori campo. A costo di estetizzare la tragedia, torna in mente quella percezione insopportabile, avvertita da Valery, dell’attesa vana, di conoscere l’avvenire a memoria.
Perché c’è anche una forza vampirica, nel cinema, che succhia il midollo, la linfa di chi gli si dedica per tutta la vita. Ne parla Kim Ki-Duk, nel film più sconcertante ed etimologicamente osceno della sua carriera (che rischiava di essere finita), Arirang. Autoregistratosi durante un periodo di profondissima crisi creativa ed esistenziale, l’autore giunge ad interrogare la sua ombra (che sarebbe un vertiginoso momento psicoanalitico se non si sentisse così forte la grana di una flagrante finzione) e a minacciare il suicidio, guardando in macchina. E allora è come se la minaccia, evidentemente non portata a termine (addirittura nell’edizione DVD dopo i titoli di coda scorrono immagini di lui sorridente, a un festival in cui viene premiato per questo stesso film) fosse rivolta verso ciò che è al di là dello schermo. E oltre lo schermo ci siamo, forse, noi.
To shoot, in inglese, significa sia “filmare” che “sparare”.

 


Concludo


David Cronenberg, forse il regista più filosofo, più genialmente tortuoso, o tortuosamente geniale, nel 2021 ha realizzato un corto di un minuto intitolato – lapidariamente – The Death of David CronenbergIn questo piccolo video, il regista interpreta se stesso che trova nel letto il proprio cadavere. Il protagonista si avvicina non eccessivamente sorpreso, inizia a baciare la salma, la abbraccia sdraiandoglisi accanto e, guancia contro guancia, inizia a espirare profondamente, mentre le due bocche aperte quasi si toccano.

 

The Death of David Cronenberg


Ci sono almeno tre David Cronenberg: colui che fisicamente è presente in scena, vivente, attante; il cadavere, somigliante bambola,  finto-morto o vera finzione della morte, immagine-relazione che tiene in vita il “messaggio”; infine, ovviamente, il Cronenberg dietro la macchina da presa, che tenta di diventare tutt’uno con la stessa e di smarcarsene nel momento stesso in cui lo diventa.
Questa piccola opera sarebbe stata forse troppo plastica e troppo letterale perché valesse la pena parlarne, se non fosse che The Shrouds, il nuovo lungo lavoro di Cronenberg, ne rappresenta il corollario e il compimento. Nonostante il cicaleccio pubblicitario, che insisteva necrofilo sul tema trito dell’arte come rinascita e sopravvivenza nel tempo della povertà – il film racconta di un uomo che ha perso la moglie, proprio come il regista – l’opera si rivela ben più profonda del coltello usato dal demiurgo per tagliare la nebbia che lo opprime. Il demiurgo, se è veramente grande, si vede solo quando cade. Cronenberg è fin troppo riflessivo, è fin troppo smaliziato per cadere nel tranello dell’immagine, lo sa e decide di cadere. The Shrouds, i sudari del titolo, sono componenti high tech di altissimo livello, che permettono di continuare a vedere, a spiare i corpi che avvolgono, (im)pietosi, nella loro consunzione: sulla lapide campeggia uno schermo4.
Dopo un atto vandalico, non si è più certi di chi sia sepolto nella tomba, se il cadavere morbosamente venerato della moglie o un altro, i loculi vengono scambiati, ma il corpo nel dubbio non viene riesumato. Intanto, il protagonista, che non può più esplorare la decadenza del proprio amore, sta amando un corpo vivo, quello della sorella gemella della moglie. Non servono mosche5: è il desiderio ad essere il mutageno in grado di trasformare, svellere la visione e i corpi, creare l’ombra di un futuro; come se bastasse desiderarlo, per cambiare tutto. Come in M.Butterfly (1993) nell’equivoco impossibile dell’amore, del godimento assurdo che è il sesso.

Il cinema viene negato come macchina illuministica, servo-padrone del reale, in cui prevale l’aspetto svelante: una volta smosso il velo scopriamo che non si svela nulla. Il re nudo è ancora rivestito dalla membrana dell’occhio: rimane forma, rimane – e non può non rimanere – ciò che si può vedere. Non reggono le parodie di thriller, i complotti, il protagonista stesso ne ride – quindi anche l’autore? – gli attacchi di paranoia sono parafilie dell’immagine, il futuro è in un aereo che attraversa il tramonto senza che le tracce abbiano realmente condotto da qualche parte. Ciò che vediamo infine non ha più il potere di indirizzarci, anzi, proprio in quanto forma sembra sbarrare il senso e costringere ad annullarci di fronte alla retinità del desiderio, a perderci nei meandri, a godere nell’occhio. In ogni caso, solo di uno schermo.
Cronenberg non sta – pateticamente e contortamente affrontando la morte della moglie attraverso un suo doppio esitante e impreciso – nella fossa senza nome c’è il suo corpo, o meglio, la bambola somigliante del corto, e cioè, il corpo del cinema stesso.

 

“Non abbiamo ancora i mezzi per scoprirci immagini, e ripartire da lì”. 

Enrico Ghezzi

 


Note

[1] (’89) Something’s Got To Give (1962) | Marilyn Monroe, Dean Martin – YouTube
[2] Saint-Pol-Roux, Cinema vivente, Argolibri, 2021
[3] L’uscita dalle fabbriche Lumière [III, II, I] (Louis Lumière, 1895) | HD
[4] Il corpo della moglie attraversato, indagato, scoperchiato non può non far pensare ad Aprire Venere, del filosofo Georges Didi-Huberman, che parla di cere anatomiche del Settecento: le stesse riprese da Cronenberg per il corto Four unloved women, adrift on a purposeless sea, experience the ecstasy of dissection (2023).
[5] Mi riferisco a The Fly.

Lascia un commento

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.