Quando leggo la formula “poetica del vago” mi viene in mente Leopardi, lo Zibaldone e la sua teoria sul piacere.
E perciò tutti i piaceri debbono esser misti di dispiacere, come proviamo, perché l’anima nell’ottenerli cerca avidamente quello che non può trovare, cioè una infinità di piacere, ossia la soddisfazione di un desiderio illimitato1.
Riassumendo, Leopardi sostiene che la costante infelicità dell’uomo è dovuta al desiderio, congenito nell’animo umano, di piacere, il quale viene proposto come sinonimo di felicità. Non trovando soddisfazione – perché il piacere non è illimitato ma effimero e una volta raggiunto nasce il sentimento di noia e delusione – l’uomo sperimenta il malessere.
Uso il termine “malessere” – e non, ad esempio, dispiacere, infelicità, amarezza – per un motivo per ben preciso: Malacqua – Nicole Pugliese (2022); La malnata – Beatrice Salvioni (2023); La malacarne – Beatrice Salvioni (2024); Maleuforia – Deborah D’Addetta (2024); Malbianco – Mario Desiati (2025); Malotempo – Veronica Galletta (2025); Malanima – Rosita Manuguerra (2025); Malesangue – Raffaele Cataldi (2025) e ci aggiungo anche delle recenti riedizioni di romanzi classici come Malacarne di Giosuè Calaciura (2022), Malombra di Antonio Fogazzaro (2022) e I Malavoglia di Giovanni Verga (2021).
Dove voglio andare a parare? C’è un che di contemporaneo ma al tempo stesso ottocentesco nella scelta del prefisso mal– spesso usato in modo da forgiare dei neologismi o delle parole composte, quasi che la lingua non ci fornisse quello che cerchiamo, non avesse esattamente il termine che ci serve. Basta notare la quantità di romanzi che negli ultimi tre o quattro anni hanno optato per un titolo che contenesse questo prefisso. Io stessa, inconsapevolmente perché al tempo del mio neologismo non ci avevo fatto caso, rientro in questo gruppo. Cosa c’entra la variazione sul tema della linguistica e della semantica con la poetica del vago? Se prendiamo per certa la teoria di Leopardi, questo malessere che proviamo, questa inadeguatezza alla vita che pare essere condivisa da molti, si allaccia al modo in cui la narrativa rispecchia questo stesso malessere. Leggevo qualche giorno fa un saggio di Edizioni Arcoiris di Alejo Carpentier: in un articolo del 1953 sosteneva che il modo di gestire l’aggettivazione in narrativa, ancora più dello stile in generale, trascina il sentimento di un’intera generazione. Così allora nel Romanticismo gli scrittori usavano aggettivi come “malinconico”, “lugubre”, “desolato”, “crepuscolare”; i simbolisti preferivano aggettivi evanescenti, remoti, opalescenti; i modernisti latinoamericani prendevano la strada dell’aggettivazione marmorea, ellenica, eburnea; quando l’occultismo divenne di moda in Europa, a inizio ‘900, nei testi si trovavano spesso aggettivi come “magico”, “stellare”, “astrale”; i surrealisti invece optavano per gli “allucinanti”, “deliranti”, “onirici”.
Gli aggettivi, dice Carpentier 2, si trasformano in accademicismi di una tendenza letteraria, di una generazione.
Possiamo sostenere che, oggi, l’aggettivo che maggiormente rispecchia la nostra generazione, e parlo di quella dei millennials, assorba dal concetto di malinconico – nella sua accezione patologica del termine, ovvero melancolico? Chiaro che la mia è una provocazione. Non siamo tutti melancolici. Però la piccola lista di romanzi che ho riportato sopra è sintomo di qualcosa, è un segnale che ci indica il ritorno in auge (semmai sia mai andato fuori moda) di un sentimento nobile, la Sehnsucht, lo struggimento – nel nostro caso, leopardiano – la “malattia del doloroso bramare” 3, la ricerca dell’irraggiungibile.
Quante volte abbiamo letto in un romanzo contemporaneo l’aggettivo “malinconico” o “nostalgico”? Io molte, ci ho fatto caso. E non solo nella narrativa, ma anche nella saggistica: di recente pubblicazione è il testo di Aurelio Musi, Malinconia barocca (Neri Pozza, 2023) e Melancolia e la fine del mondo di Paolo Godani (Feltrinelli Gramma, 2025) uscito proprio a inizio anno.
La poetica del vago di Leopardi sostiene che tutti gli aspetti della realtà sensibile che hanno come connotazione la vaghezza, l’indefinitezza, l’effimero, il lontano e l’ignoto mettono in moto l’immaginazione umana, la voglia di creare un mondo parallelo in cui vengono compensate la noia e la delusione della realtà. In questo mondo parallelo trova senso la nostra malinconia, il malessere, lo struggimento che sembra connotare la genetica della nostra epoca disillusa, il desiderio del desiderio, per allacciarci al concetto romantico di Sehnsuch.
Questa ricerca di piacere e felicità abbraccia ogni ambito, ma incontra ovvia e feroce frustrazione nell’erotismo. La poetica del vago, in questo caso, si fa più comprensibile: vogliamo disperatamente qualcuno da amare e da cui essere amati, col corpo e lo spirito, ma l’oggetto del nostro desiderio – quale? chi? – ci sfugge.
Ancora una volta, se prendiamo per certa la teoria leopardiana, nel momento in cui amiamo eroticamente qualcuno, tutto il desiderio si esaurisce nell’atto fisico: è forse per questo motivo che gli amori irrealizzati, inappagati, tendono a quell’infinito di cui parlava lo scrittore.
Dico “amori inappagati” e subito penso ai protagonisti di In the mood for love, film capolavoro di Won Kar-wai, oppure al Dottor Živago e Lara, o a Lucile Angellier e Bruno von Falk (Dolce, seconda parte di Suite francese di Irène Némirovsky), a Cyrano de Bergerac e Rossana, ad Amore e Psiche, a Romeo e Giulietta. L’amore inappagato è un tòpos, un archetipo letterario, quello che volgarmente si direbbe “il conflitto” nell’intreccio. L’amore inappagato è il desiderio del desiderio ed è insito della sua genetica essere vago, inafferrabile, “velato e distratto”, come ha scritto Byung-Chul Han nel suo ultimo saggio 4 .

Nell’amore inappagato il piacere diventa dis-piacere, laddove il prefisso (ancora uno) dis– non intende suggerire un contrario, ma un rovesciamento – la figura di una carta francese – non il suo rinnegamento, ma il suo riflesso allo specchio. Dunque un elemento necessario senza il quale il piacere non esisterebbe nemmeno.
E c’è anche da dire un’altra cosa a proposito della vaghezza: ci piace. Ci crogioliamo nell’indefinito e nella malinconia, siamo quasi masochistici quando pensiamo al modo in cui le cose e il significato delle cose ci scivolano tra le dita. Probabilmente, nella nostra nuova genetica, c’è una tendenza a procrastinare il dolore, il piacere del dolore, perché sappiamo che fin tanto che soffriamo possediamo qualcosa. Quando riusciamo a ottenere questo qualcosa, per miracolo, merito o colpo di fortuna, poi ci viene a noia. Ne restiamo delusi, amareggiati, cadiamo nel mal-umore: perché? Qualcuno direbbe che l’immaginazione supera la realtà (molto leopardiano); qualcun altro che siamo allenati a far aderire i nostri sogni a un mondo virtuale più che a uno tangibile; altri ancora che l’ottenimento dell’oggetto del desiderio esaurisce la nostra carica vitale ed erotica (nel senso etimologico del termine, cioè la spinta d’amore) causando un’ovvia afflizione.
Viene da dire: ma quindi è tutto qui? Ci rendiamo conto, in realtà, che non abbiamo ottenuto nulla, che ciò che era più di valore era proprio il nostro desiderio, la sua spinta, il suo fuoco, il modo in cui ci faceva sentire significativi. Avevamo uno scopo.
È una teoria pericolosa: porterebbe avanti l’assunto secondo cui rifugiarsi nell’immaginazione è meglio che vivere la vita vera, che il vago è meglio del definito, che la malinconia è meglio del buonumore, che il piacere non è raggiungibile ma il desiderio del piacere sì.
Parafrasando un famoso spot di Campari (che ha citato l’aforisma di un autore tedesco, Gotthold Ephraim Lessing) l’attesa del piacere è sia dolorosa che eccitante. Masochistica, appunto. E qui mi aggancio di nuovo al nostro suffisso mal– : probabilmente questo sentimento di frustrazione estatica, per usare un ossimoro, è la radice da cui attinge la narrativa contemporanea e dunque lo specchio di una generazione.
Tutti i romanzi che ho nominato in apertura possiedono una connotazione nostalgica, una grammatica che sfiora il disagio esistenziale, i tormenti del corpo, il desiderio, la rovina, e che – contrariamente a quanto si potrebbe pensare – ne giovano, fanno di questo smarrimento così attuale LA radice.
Allora i nostri aggettivi potrebbero essere: “smarrito”, “inquieto” (con tutti i suoi bellissimi sinonimi), “agognante”, “frainteso”, “decostruito”? O, per riassumere, mal- come prefisso da agganciare a qualsiasi altra parola?
Forse è proprio in questo spazio di tensione tra desiderio e realizzazione, tra vago e definito, che si gioca il senso della nostra epoca. Il prefisso mal- non è solo un riflesso del nostro malessere, ma anche un segnale linguistico della ricerca: una nuova poetica del vago, o semplicemente l’inevitabile condizione di una generazione?
L’immaginazione, come ho detto, è il primo fonte della felicità umana. Quanto più questa regnerà nell’uomo, tanto più l’uomo sarà felice 5.
Note
1 Giacomo Leopardi, Zibaldone di Pensieri vol. I-II. A cura di Francesco Flora, Mondadori, 1949.
2 Alejo Carpentier, La parola e la sua ombra. A cura di Marcella Solinas. Edizioni Arcoiris, 2024.
3 Cf. il Deutsches Wörterbuch (“Vocabolario tedesco”) di Jacob e Wilhelm Grimm.
4 Byung-Chul Han, La salvezza del bello. Nottetempo, 2025.
5 Op.cit.
In copertina: artwork by Gauguin

