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La necessità di assecondare l’istinto all’immobilità – Di Serena Votano

Quante volte ci è capitato di andare a dormire e sperare così di risolvere un problema?
Dormire dopo una brutta giornata, addormentarsi per un mal di testa o un dolore psichico: e se dormire fosse l’unico modo per esistere?
Ne Il mio anno di riposo e oblio (Feltrinelli) di Ottessa Moshfegh, la protagonista – ricca, senza nome – decide di assumere un insieme di farmaci per stare a letto un intero anno, svegliandosi solo per brevi intervalli.
«Non so indicare un evento specifico che mi aveva portato alla decisione di andare in letargo. All’inizio volevo solo un po’ di calmanti per cancellare pensieri e giudizi perché con la loro raffica continua facevo fatica a non odiare tutti e tutto. Pensavo che la vita sarebbe stata più tollerabile se il mio cervello fosse stato più lento nel condannare il mondo che mi circondava».
Inizia così, grazie all’incondizionato supporto di una psicologa bizzarra e accomodante, il più delle volte superficiale e poco aperta all’ascolto, il limbo di apatia e inerzia, interrotto solo da brevi visite dell’amica Reva, bulimica, insicura, bisognosa di affetto e approvazione. Ma come permettersi un anno di riposo a New York?

 

Non è un problema per la protagonista, un personaggio decisamente scomodo e fastidioso. Da poco laureata alla Columbia e residente nell’Upper East Side di Manhattan, vive grazie a una rendita ereditata dai genitori. La loro morte non rappresenta il dolore più grande della sua vita, nei suoi racconti di apparente lucidità traspare rancore per le volte in cui è stata ignorata, scavalcata e non curata da quei genitori che, pur volendole bene, lo hanno fatto in modo distante e freddo. L’unica cosa che la tiene attaccata alla quotidianità è il lavoro in una galleria d’arte ma, dopo mesi di assenza mentale e incapacità logica, vede nel (giusto) licenziamento un’opportunità per dedicarsi anima e corpo alla sua missione: un anno di riposo forzato e alienazione dal mondo.
La cosa bella della letteratura è scoprire che non si è i soli, a questo mondo, a provare la stessa inquietudine. Leggendo Ottessa Moshfegh mi è venuto in mente un altro romanzo breve, Un uomo che dorme, (Quodlibet) di Georges Perec , dove il protagonista è uno studente che una mattina, invece di  alzarsi e andare all’università per sostenere un esame, sceglie di ignorare la sveglia.

 

Gradualmente si ritira dal mondo: evita gli amici, evita i piccoli vizi e riduce la sua esistenza ad atti ordinari e ripetitivi come leggere, osservare e ascoltare. È uno spettatore silenzioso della sua stessa vita. O meglio, l’uomo di Perec rivendica una vita in cui non accade nulla di eccezionale.
«Hai soltanto venticinque anni, ma la tua strada è completamente tracciata. I ruoli sono pronti, le
etichette: dal vasetto della prima infanzia alla sedia a rotelle della vecchiaia, tutte le sedie sono lì e aspettano il loro turno. Le tue avventure sono descritte così bene, che la ribellione più violenta non farebbe battere ciglio a nessuno. Puoi anche affannarti a scendere per strada e mandare al diavolo la gente, cospargerti il capo di sporcizie, andare scalzo, affiggere manifesti, tirare colpi di rivoltella al passaggio di qualche usurpatore, non cambierà niente».
Nessuno squilibrio, nessuna crisi lo ha spinto a vivere “smettendo di guardare l’ora e di contare i
minuti”, come lo scrivano Bartleby che si rifiuta di aderire alla società («Non capite da voi la ragione?» scriveva Herman Melville nel suo Bartleby lo scrivano).

Nei due personaggi qualcosa si è rotto, ciò che prima li sosteneva e li incastrava nella società della performance – lei a New York e lui a Parigi – adesso li fa sprofondare. Scrive Perec, e qui il rimando a Moshfegh: «[…] senti di essere poco adatto a vivere, agire e lavorare; vuoi soltanto durare, vuoi soltanto l’attesa e l’oblio».
Questi due libri hanno in comune la necessità di assecondare l’istinto all’immobilità. Se Il mio anno di riposo e oblio è un libro in cui il lettore entra in un delirio narcisistico, a volte respingente e dai tratti humor, in cui questo bisogno di annullarsi è un desiderio da realizzare ad ogni costo, mentre Un uomo che dorme non è un romanzo di trama ma di pensiero in cui la vita sembra semplicemente essere un negativo della morte.

Perché se accontentarsi vuol dire condannarsi a non godere mai di alcuna pienezza, tanto vale scegliere l’assenza, il vuoto, ciò che è scomodo per la società ma dà un senso alla nostra vita.
È giusto? È sbagliato? Capita a tutti di perdere interesse per qualcosa, ma questo può essere una
necessità legata alle molteplici competenze richieste dal mondo del lavoro, al senso di inadeguatezza che ci impone la società contemporanea e l’incertezza del futuro, che ci costringe a mettere in discussione la nostra esistenza. Non esiste (al momento) una soluzione a tutto questo, ma nei due personaggi l’istinto prende il sopravvento. Non c’è ribellione nei loro gesti.

Pensando alla mia generazione, mi viene da dire che combattere contro la ciclicità della vita scivolando nel sonno non è la risposta per abbattere la città-mattatoio che saccheggia i nostri sogni, ma sarebbe bellissimo poter dire semplicemente No a tutto questo. Così come per anni abbiamo assecondato l’iperproduttività, la necessità di dimostrare al mondo chi siamo, cosa possediamo e la nostra (finta) felicità – sui social e non solo –, allo stesso modo assecondare il desiderio di immobilità. Senza rinnegare o rifiutare niente, smettere di andare avanti seguendo un ritmo che non ci appartiene.
Mi chiedo, però, se dormire non sia già una fase in cui siamo caduti, vittime della società dell’atarassia. E così, in un mondo che ci appare incomprensibile e senza via d’uscita, l’unico modo per dare un senso alla nostra vita è svegliarsi.


In copertina: Ritratto di Una Giovane Donna in Bianco,  Jacques Louis David

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