A cura di Annalisa Grulli
Il gallerista Emilio Mazzoli racconta il suo mestiere; il lavoro che dal 1970 lo vede promotore dell’arte italiana e internazionale. Dopo una prima esperienza con Futura, galleria aperta dal 1970 al 1971, gestisce Galleria Mazzoli a Modena dal 1977; luogo che ospitò l’anno successivo la nascita della Transavanguardia, corrente artistica del secondo Novencento che aveva come esponenti Enzo Cucchi, Sandro Chia, Mimmo Paladino, Nicola De Maria, Francesco Clemente: «Gli artisti tornano ad affrontare nuovamente la pittura, il disegno, la scultura, l’affresco, come espressione della soggettività e dell’individualismo. È soprattutto nella radicalità con cui riprendono il discorso sulla soggettività che sta il contributo decisivo degli artisti alla nuova tendenza postmodernista». Le parole di Umberto Eco riassumono una componente alla base del pensiero di Mazzoli: l’artista che esprime sé stesso e le sue peculiarità attraverso le forme d’arte tradizionali; «Non c’è più una coerenza interna al lavoro dell’artista ma la coerenza sta proprio nel seguire tutti gli istinti e gli stimoli che provengono dalla pratica della creazione», in netta contrapposizione con l’Arte Povera degli anni Sessanta. Con la collettiva Tre o quattro artisti secchi, ideata insieme al critico d’arte Achille Bonito Oliva, Galleria Mazzoli inaugura una nuova stagione dell’arte e diventa un riferimento per appassionati e collezionisti. Alla base del suo lavoro una solida rete di rapporti e le esperienze dirette con gli artisti emergenti dalla fine degli anni Settanta e il decennio successivo.
Nei suoi oltre cinquant’anni di attività la galleria ha ospitato le personali di Davide Salle, Ross Blekner, Alex Katz, Robert Longo, Luigi Ontani, Gian Marco Montesano, Annette Lemieux e ha aperto una sede a Berlino gestita del figlio Mario Mazzoli. In una realtà sempre più virtuale, quello del gallerista è un lavoro che mette ancora al centro il corpo e la materia; Emilio Mazzoli ricorda quando rischiare era doveroso e divertente ma riconosce che, a volte, a determinare le sorti di un artista non è solo il talento ma le persone presenti e assenti. Niente di tutto questo potrà diventare artificiale.
Quando ha capito che avrebbe dedicato la sua vita all’arte?
L’ho capito nel 1966, quando facevo l’insegnante in una scuola privata di Modena, una scuola di salesiani. Avevo incominciato a interessarmi agli artisti locali e ho capito che il mondo degli artisti e dell’arte era il mio. Nel 1967 mi sono deciso, e ho iniziato l’avventura che mi ha portato qui.
C’è un aspetto fisico nel suo modo di lavorare, non si tratta soltanto di opere e mercato, qual è questa componente?
Si potrebbe dire che c’è un aspetto corporale sì. In questo mestiere devi esserci. Negli anni Ottanta per esempio era impossibile cogliere il potenziale di un artista senza vederlo lavorare, o convincere un compratore a investire senza cenare con lui. Poi c’è un aspetto più profondo che riguarda gli artisti che, come dice Bonito Oliva, in generale sono personaggi particolari. Essere artisti non è una professione, è un dono praticamente, è una qualità che uno ha innata. E gli artisti, come dice Achille, sono anche errori biologici. A me si può dire che piace il talento, scoprire qualcuno che è in grado di fare qualcosa in modo unico. L’arte aveva un contesto particolarmente interessante, a me piaceva la possibilità di pensiero, la libertà e il coraggio; nessuno di questi tre aspetti era istituzionalizzato come nelle altre professioni. Un mondo di assoluta libertà; se ci penso ora mi tornano in mente tutta la fantasia, le idee e la sperimentazione che ho potuto esercitare. Continuo a cercare questo.

Una volta lei disse “Non siamo noi ad andare dall’arte, è l’arte che viene da noi”.
È la verità. Anche quando vedi un quadro, è il quadro in un certo senso a vedere te. Tu sei un mezzo, ci provi, sei qualcosa, ma se un quadro non vuole andare da un collezionista non succede, c’è una dimensione nella quale l’individuo e l’opera devono allinearsi. Puoi avere molti quattrini da spendere ma non bastano, ho visto collezionisti rifiutare Katz e Salle. Ecco questo è un discorso che ho sicuramente fatto e in cui credo ma oggi il mondo dell’arte non è più composto da amatori, e il mondo degli artisti non è più un’isola di libertà.
In che senso?
Ci sono stati periodi dove era permesso quello che non era permesso nelle altre applicazioni: corpi nudi, musei a cielo aperto, performance di spessore. Oggi il mondo dell’arte è tenuto dalla finanza e dalla moda. Io penso che si debba molto all’arte, ma manca la poetica, la cultura alla base e questo è un debito che verrà pagato. Ora tutto è legato a qualcosa di produttivo ma non va dimenticato che la moda è un’applicazione dell’arte, ha una sua estetica, i suoi canoni e le sue rivoluzioni. Se pensiamo di fare arte senza più le menti creative, le persone competenti che fanno il mio mestiere allora resta solo l’applicazione.
Le opre che espone sono pensate apposta per la sua galleria, lei le compra dagli
artisti, crede in loro prima del tempo, poi cosa succede?
Io ho sempre comprato le opere degli artisti che ho esposto perché voglio essere complice e voglio partecipare al rischio. Questo mi porta a una selezione personale, quasi intima, che si trasmette anche nel rapporto con l’artista, e con chi vuole comprare. Naturalmente se l’arte di qualcuno non mi piace non mi faccio molti scrupoli a dirlo e questo non sempre piace nell’ambiente; un po’ lo capisco ma chi sa come lavoro non dovrebbe giudicarmi per questo. Bisogna venire alle mostre e alle fiere e vedere perché qualcuno sì e qualcuno no, quello che succede dopo è storia. Quando sono partito con la Transavaguardia, nessuno sapeva dirmi se sarebbe durata, ma io vedevo la meraviglia e lo stupore di quello che succedeva tutti i giorni.

carboncino su carta intelaiata, cornice in foglia d’oro lavorata a mano, custodia in pelle e 30 pezzi di argento charcoal on mounted paper, handcrafted gold leaf frame, leather pouch and 30 pieces of silver 199,1 x 122,9 x 7,6 cm
Courtesy the Artist and Galleria Mazzoli
Non le chiederò quello che le chiedono tutti da anni, mi dica qualcosa lei di quel periodo.
Ti dico che Basquiat l’ho fatto perché mi piaceva. Mi chiamano continuamente per chiedermi di Basquiat e io rispondo semplicemente che era un giovane artista, io ero a New York, ho partecipavo al teatro dell’arte perché allora c’era il teatro, c’era il Village e c’era Soho dove gli artisti dipingevano le strade, dipingevano le macchine dipingevano i quartieri, e Samo mi è piaciuto. Non c’era ancora questo manicomio che c’è oggi. Ho fatto una mostra, la prima, l’ho venduta ai miei clienti, a chi ha creduto in noi. Poi purtroppo lui è morto. Vorrei che fosse ancora vivo, che costasse meno ma che fosse ancora vivo, e che fosse felice magari, ecco questo non lo dico con tutti. Il talento di Basquiat non vale il prezzo che gli fa il mercato. È un bravissimo artista di primissima qualità ma non è quello il valore reale. Ci sono artisti molto più importanti di Basquiat che costano molto, molto meno. Ti faccio l’esempio di Rosai e De Pisis, artisti italiani di altissimo livello che non costano niente.
Anche in questo caso il corpo ha la sua importanza.
Certo, Basquiat ha dipinto 400-500 lavori, quello che poteva fare è fatto. Se fosse ancora vivo ci sarebbe ancora quello scambio tra la sua produzione e il consenso dei critici, dei collezionisti, perché nessuno gli avrebbe chiesto di smettere. Lui però non c’è più e chi ha una sua opera spesso riesce solo a valutarla, manca una parte del meccanismo, quella che può tenere a bada le cifre: il rapporto, manca lui, appunto.
Ma quindi l’arte mette più pace o più agitazione a chi la fa, a chi la frequenta, a chi
la produce?
Questo non te lo so dire. L’arte secondo me è un pensiero, va assecondato e protetto. Io mi impegno a mantenere viva l’arte in cui credo. Ci metto sempre meno a dire “no”.
Qual è il consiglio più prezioso che le hanno dato?
Quello di capire e poi conoscere e non il contrario. Per fare il mio mestiere bisogna capire che l’artista deve pensare al suo lavoro; non è capace di fare il resto. Il gallerista è un compagno di strada che deve presentare l’artista al mondo, la galleria è il luogo dove si sperimenta insieme, il palco di un teatro dove si fanno le prove e poi lo spettacolo per essere conosciuti. Vale per ogni forma d’arte, dalla pittura alla letteratura.
La sua vita è ruotata intorno alle immagini: che importanza ha avuto la letteratura
e da dove arriva questa sua altra passione?
Mi sono sempre speso per lasciare una traccia del mio lavoro negli anni. Con Emilio Mazzoli Editore pubblico i cataloghi delle mostre fatte in galleria. Facciamo ancora i menabò dei cataloghi con la collaborazione di artisti fotografi e critici. Voglio pubblicare il percorso della galleria, in un certo senso. Arte e letteratura sono due aspetti fondamentali della ricchezza culturale del nostro paese, sono sempre interessato a entrambe. In più credo che ci voglia un po’ di ordine e la parola sa essere molto ordinata se gestita bene.
Un artista che vorrebbe ricordare.
Mario Schifano. Un grande artista e un caro amico.
Mentre concludiamo l’intervista Mazzoli riceve la telefonata di uno dei suoi artisti che sta lavorando a una mostra importante, lo ascolta in silenzio, prima di chiudere la telefonata dice: “Quello che conta alla fine è in una sola parola: l’opera. Se fai qualcosa che chiami in un altro modo allora il tuo lavoro non è pronto per stupire. E neanche per me”.
In copertina: Ritratto di Emilio Mazzoli by Carlo Benvenuto. Courtesy L’Artista & Galleria Mazzoli, Modena

