Contemplando uno strapiombo di Capri ho provato il desiderio violento di buttarmi giù.
Eppure non è stato un desiderio funesto, anzi, il contrario. È durato un attimo, il tempo di formularlo e poi tornare presente a me stessa. Subito dopo ho compreso che non è stato un parto spontaneo della mia mente, ma un anelito indotto da quel luogo in particolare. Allora mi sono chiesta se esistono posti nel mondo che a causa della loro estrema magnificenza ci fanno sentire così – tragici – consapevoli di calpestare un terreno non adatto agli esseri umani, ma solo a divinità che hanno deciso di ritirarsi altrove.
E mi sono chiesta anche se, proprio in virtù del fatto che la fama di certi posti li precede, ci costringiamo a provare dei sentimenti, che siano amore, odio, disgusto, fascinazione, non importa. C’è una responsabilità cognitiva che abbiamo nei loro confronti. Non si può restare indifferenti davanti a una scogliera di Capri: la potenziale assenza di slanci emotivi sarebbe un demerito, ci farebbe sentire insensibili, poco profondi, magari un po’ mediocri e noi non vogliamo essere mediocri, vogliamo visitare un luogo nuovo e poter scolpire nella pietra la nostra opinione, dire “qui, ho sentito qualcosa”.
Capri è uno di questi.
Ci ho messo piede per la prima volta a quasi trentotto anni, nonostante io viva a Napoli già da venti. Avevo delle aspettative enormi, com’è normale che sia per luoghi così famosi e iper-raccontati, ma tutte le mie fantasticherie si sono frantumate in cima a quello strapiombo. Lì, davanti alla scogliera di Punta Cannone, ho avuto come l’impressione che addormentarsi a Capri portasse con sé il rischio di non svegliarsi mai più.
È stato un “pensiero del terrazzo”, come li definiva Raffaele La Capria. Lui, autore napoletano che aveva l’isola nel nome, ha scritto che la vera meraviglia di Capri sono le rocce e non il mare e che Gustave Doré si è ispirato a esse per le illustrazioni dell’Inferno dantesco1.
Sembra forzato associare un’isola azzurra come Capri alle atmosfere crepuscolari di Doré. Eppure. Per me le isole sono sempre in bianco e nero. La divergenza tra luci e ombre sublima la natura pericolosa e ammaliante delle isole. Isole minuscole. Come Capri, Tavolara, Stromboli. Se penso a loro, penso in bianco e nero. Le ho visitate tutte e tre, in ordine decrescente di tempo – Capri poche settimane fa, Stromboli a quattordici anni – e di personalità. In adolescenza ero una persona molto diversa da quella che sono ora, ma la sensazione non è mai cambiata: le isole minuscole mi fanno sentire melancolica. Appunto, tragica.
Quest’estate ho visto Tavolara per la prima volta e non sono riuscita a togliervi gli occhi di dosso per ore. Ho scoperto che anche sulla sua cresta rocciosa c’è uno strapiombo che si chiama Punta Cannone. Un’isola dritta come una lancia, che a colori dice poco, ma in bianco e nero si trasforma magicamente in un luogo fiabesco, nell’accezione che i fratelli Grimm davano alle fiabe tedesche: inquietante. Anche Capri è inquietante. Forse è dovuto alla vertigine, ai suoi precipizi, al peso della sua bellezza. Te lo senti tutto addosso, ti schiaccia a terra. Il mare che si infrange sulle scogliere canta. I capresi lo chiamano “fiatone”, quel soffiare del vento che si insinua tra gli scogli. Un sospiro immenso2, come l’ha definito La Capria.
Se è vero che i luoghi ci parlano, Capri sussurra. Sibila. Suggerisce sensualmente.
Racconta storie di cui non sai nulla ma che indovini subito come finiscono, perché quella potrebbe essere anche la tua, di fine. Non è difficile pensarlo in cima a uno strapiombo. Gli uomini non sono fatti per restare in piedi davanti a uno strapiombo. O si allontanano o cadono. E a Capri molti sono caduti.
C’è una componente luttuosa nella genetica dell’isola: Norman Douglas, scrittore britannico, suicida a Capri all’età di ottantaquattro anni; Hjalmar Jensen, pittore danese, cade dall’Arco Naturale; il barone Fersen, proprietario di Villa Lysis, suicida per un overdose di cocaina; Friedrich Alfred Krupp, costruttore della famosa serpentina di Via Krupp (proprio quella ai piedi dello strapiombo di Punta Cannone) presunto suicida; Luise Besch, turista tedesca, annega nei pressi della Grotta dell’Arsenale; Emil Heinrich Paul Martens cade, anche lui, dalla terrazza dell’Hotel Pagano; Pamela Reynolds, poetessa inglese, a vent’anni precipita da una rupe. L’ultimo in ordine di tempo, Luca Canfora, costumista di Sorrentino, presunto suicida mentre erano in corso le riprese di Parthenope. Lo stesso Raimondo Di Sangro, fratello fittizio di Parthenope nel film, muore suicida lasciandosi cadere oltre una ringhiera. Marinetti ha descritto le scogliere di Capri come privilegiate terrazze per eleganti suicidi 3.
Può un suicidio essere elegante? Non lo so, ma di sicuro – a Capri – lo è la sua narrazione.
Poco prima di arrivare ai Giardini di Augusto, mi sono arrampicata su una rupe del Parco Astarita. Volevo vedere se riuscivo a scorgere i Faraglioni. È stata una mossa incosciente, pericolosa. Il guardiano del parco, non appena mi ha vista lassù, ha cominciato a urlare disperato. “Scendi, scendi! Pazza!” gridava con le mani tra i capelli. Solo dopo avergli dato saggiamente retta, ha avuto la pazienza di spiegarmi che lì, in quel punto esatto, molte persone hanno incontrato la morte buttandosi giù. Qualche ora dopo, davanti alle colonne di Piazza Umberto I, mi è venuto sonno. Io non mi addormento mai in luoghi che non sono il mio letto. Faccio fatica, quando viaggio, a prendere sonno sui materassi altrui. Guardando il Monte Solaro, il promontorio che separa Capri da Anacapri, mi sono addormentata. E quando mi sono svegliata, ho avuto timore che quello fosse stato un sogno nel sogno, che in quel luogo io avessi incontrato qualcosa, un soffio o un canto e che, in realtà, il mio corpo fosse rimasto immobile davanti al dirupo di Punta Cannone. Mi sono persa in una rêverie. Io ne ho visti di strapiombi nella mia vita, ma come quelli di Capri mai.
Diceva ancora La Capria: “C’è infatti un modo di pensare vago ed erratico da me qui sperimentato e che chiamo appunto i pensieri del terrazzo. Sono pensieri che forse per corrispondere all’imponenza dello scenario tendono ad innalzarsi su, sempre più su, dove le nuvole vanno e vengono nei celesti reami, impegnati anch’essi, come le nuvole, nell’eterno gioco delle trasformazioni e delle astrazioni […] hanno sempre a che fare coi massimi sistemi perché, l’ho detto, volano alto, sono cosmici, sempiterni, a volte persino leopardiani, e si occupano di cose come l’Ordine o il Disordine dell’Universo, e altre simili inezie”4.
Ne ho sperimentati vari, di questi pensieri del terrazzo: ammirando il Vesuvio, osservando il fiume Douro che separa le due sponde di Porto, navigando intorno a Stromboli che eruttava di notte, sfrecciando su un motorino lungo una stradina buia di Folegandros, sotto un manto di stelle che pareva cadermi addosso. Non starò qui a fare una lista romantica, ma ho capito che i miei pensieri migliori vengono fuori se c’è di mezzo l’acqua – fiumi, mare, oceano – e le isole.
Ognuno ha il suo luogo prediletto per lasciar andare i pensieri del terrazzo: una località che ricorda l’infanzia, un posto in cui si torna spesso, un colpo di fulmine improvviso per una città, una piazza dove si è inciampati in qualcuno, un bar, una chiesa, un bosco, un treno, uno scoglio, una spiaggia, una terrazza panoramica, qualsiasi cosa. Il bello è sapere qual è il posto speciale di ogni persona e chiedere il motivo. Molti, quando devono sceglierne uno, rispondono con il nome di un’isola. Eppure Capri continua ad apparirmi unica nel suo genere. Perché? La risposta probabilmente non è in Capri, ma nella sua controparte: Controcapri. Alberto Savinio, scrittore, drammaturgo e compositore italiano, ha scritto dell’isola: “panorama girevole, ingannatore, paganissimo di Capri […] il mare scopre a noi i suoi terribili segreti. Hai visto? La superficie passa come un velo, come cristallo mobile sui misteri del fondo, ove, tra scuri banchi di alghe e nere bocche di abissi, fosforici frammenti di chiari di luna guardano con occhi di medusa 5”.
Girevole, ingannatore, paganissimo. I luoghi ci sembrano più nostri quando abbiamo l’impressione di scorgerne una faccia nascosta, come fosse una scoperta esclusiva frutto di una certa intelligenza o acutezza emotiva che ci fa sentire egoisticamente eletti. La bellezza di Capri è sotto gli occhi di tutti, anche quelli che non l’hanno mai vista, è talmente magnifica che supera anche i limiti dello spazio. Ma è anche girevole – basta distrarsi un momento e si attacca addosso la malinconia; ingannatrice – ti fa credere di essere l’unico suo amante, ma nel frattempo sta vendendo pezzi di corpo al miglior offerente; paganissima – Tiberio ha lasciato la sua lunga impronta e in certi anfratti, fenditure e grotte e angoli sperduti, si sente fortissima l’aura di un piccolo mondo antico, profanato solo dalla verdebluescente6 luce degli elementi primigeni.
Capri ti fa sentire tragico perché quella luce avresti voluto vederla, ma ormai è troppo tardi. Non sei l’unico spettatore, non sei l’eletto. Il suo incanto è così fragile e il suo splendore così manifesto che anche la più piccola sbavatura – una cartaccia a terra, un pezzo di plastica in mare, un gabbiano ferito – provoca angoscia. Qui, ti assale la sensazione che il mondo sta finendo7.
A Capri la dissolutezza dell’uomo e l’ammaliamento della rovina sembrano pilastri su cui l’isola stessa si regge.
Tuttavia, a me, la rovina piace molto, soprattutto quando è appena dietro l’angolo, quando devi grattare con le unghie per scoprirla, quando è essa stessa a rendere imperfetta la perfezione. Una perfezione che non ha difetti non ha senso di esistere. Capri ci va vicina perché costringe a non soffermarsi all’apparenza: le sue scogliere vertiginose, la pienezza di un panorama quasi insostenibile, la luce del suo mare, non reclamano l’incanto ma il disincanto, rievocano tutti quei momenti in cui, in bilico su quelle stesse scogliere, l’uomo ha perso la ragione e ha dato ascolto alle voci. Le voci di chi? mi chiedo. Non lo so. Le isole minuscole forniscono enigmi, non soluzioni. Chi ama le risposte ama anche le città, le folle, il disordine, l’eccitazione di non trovarne alcuna o l’inganno di autoconvincersi che ce ne sono diverse. Chi ama l’enigma, ama le
isole minuscole. Accetta di porsi delle domande e di non avere assolutamente niente in cambio, se non altre domande, in un circolo vizioso che regala qualcosa di inestimabile: la possibilità di restare lì, davanti a quella scogliera, e assentarsi dal mondo anche solo per un attimo. Azzerare i pensieri. Farsi puro spirito. Desiderare di morire.
Addormentarsi con il dubbio di non svegliarsi mai più. È un sussurro diabolico, quello dell’isola azzurra, perché non ne provi paura.
Note
1 Raffaele La Capria, Capri e non più Capri, Mondadori, 1991.
2 Op.cit.
3 Dal discorso di Marinetti al Convegno italiano per la difesa del paesaggio, Capri,1923.
4 Op.cit.
5 Alberto Savinio, Capri, Adelphi, 1988.
6 Op.cit.
7 Op.cit.
In copertina: L’isola dei morti (terza versione) di Arnold Böcklin

