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La poesia è una scimmia brasiliana: Emilio Villa e Lina Bo Bardi (di Gabriele Doria)

 

Si nasce due volte:
la prima per caso, la seconda per scelta.
Lina Bo Bardi

 

Pietro Maria Bardi fu uno dei protagonisti del mondo dell’arte italiana durante il Ventennio fascista. Autodidatta volitivo e intraprendente, dotato di acuto senso imprenditoriale, spiccato pragmatismo e un più che discreto occhio per le novità, fondò gallerie a Roma e Milano. La fede fascista non lo soccorse quando alcuni suoi scritti non furono graditi al Regime. Caduto in disgrazia, riuscì però nel 1944 a inaugurare, a Roma, lo Studio d’Arte Palma, centro espositivo e laboratorio. È  lì che si imbatté nella parabola spericolata, e talvolta pericolante, del poeta-clandestino Emilio Villa. Biblista, critico d’arte, esperto di lingue antiche e di vertiginose etimologie con cui intesse una poesia obliqua e meticcia, tramata di filiture uterine, Emilio Villa si rivela valido braccio destro e redige per il neonato Studio numerosi testi e articoli. I due, a prima vista, non potrebbero essere più distanti. Una quindicina di anni di differenza, Villa (più giovane) nega continuamente a se stesso la condizione stabile e certa di un’origine, in una fuga precaria, consumata nell’oltranza parricida e matricida, da Anti-Edipo in marcia (letteralmente: come Joyce, la cui ombra occuperà a lungo il suo cammino, sarà assente alle esequie della madre). Bardi, al contrario, è pragmatico, pronto, è un mercante già esperto e ha i contatti giusti. L’arrivo degli Alleati sembra scompaginare tutto: il gallerista, per i suoi trascorsi politici, è costretto a diventare transfuga. Parte con la moglie, destinazione Brasile.

 

Lina Bo Bardi

Descritta da Bruno Zevi come “un’eretica in veste aristocratica”, “una stracciona elegante”, “un’eversiva aggirantesi in quartieri lussuosi”, nel 1946 Lina Bo è architetto, designer, nonché militante del Partito Comunista Italiano. È nata a Roma, ma ha ben presto capito che l’aria della capitale, leziosa e accademica, non fa per lei. Fuggendo dalle “rovine dell’Antichità recuperate dai fascisti”, si trasferisce a Milano e diventa collaboratrice di Giò Ponti. Le sue prime esperienze di progettazione, con Carlo Pagani, sono pura teoria, data l’impossibilità di costruire, ma è in quegli anni che il suo impegno è profuso in riviste di architettura come Domus e Stile, per cui realizza illustrazioni e testi. A-Cultura della vita, fondata con Bruno Zevi, curata anche nell’innovativa grafica, traccia una topografia del disastro aprendosi al dopo, alla ricostruzione della vita come promessa e risarcimento. Lina Bo parte per il Brasile col marito Pietro Bardi nel 1946, lo stesso anni in cui i due convolano a nozze.
Cosa significa fare l’architetto nel tempo della povertà?

Fra bombe e mitragliate, ho fatto il punto della situazione: l’importante era sopravvivere, preferibilmente incolume, ma come? Ho sentito che l’unica via era quella dell’oggettività e della razionalità, una via terribilmente difficile quando la maggioranza sceglie il ‘disincanto’ letterario e nostalgico. Sentivo che il mondo poteva essere salvato, cambiato in meglio, che questo era l’unico compito degno di essere vissuto, il punto di partenza per poter sopravvivere1

Nel 1947 Pietro Bardi riceve dal magnate della radio e collezionista Assis Chautebriand, il compito di fondare un nuovo museo d’arte, dal respiro internazionale, a São Paulo. Bardi, per quanto entusiasta, è ignaro di questioni museali e coinvolge Villa (altrettanto ignaro).
In questo momento, racconta il biografo villiano Aldo Tagliaferri, c’è qualcosa che accomuna fortemente i due uomini – così diversi per temperamento e formazione – ed è una sorta di rivincita nei confronti della patria, ritenuta sorda alle istanze della modernità2.
Inoltre, i due condividono la minimizzazione della distanza tra le arti del passato e quelle del Novecento, con il rifiuto categorico di assegnare valutazioni estetiche sulla base di collocazioni storiche. Il nuovo museo viene battezzato MASP, nudo acronimo di Museo d’Arte di São Paulo, ed è significativo notare come sia lo stesso edificio, progettato da Lina Bo Bardi, a comunicarci questa idea di presente storico. Nell’avenida Paulista, settanta metri di luce libera si ergono tramite grandi piloni, racchiusi da cristalli di vetro temperato. Le opere di tutte le epoche, rifiutando il termine di una disposizione certa e riconciliata, sono disposte insieme, tutte contemporanee, su pannelli fluttuanti in cui ognuno, liberamente, come spiega Maria Argenti, può tracciare il percorso “di una contemporaneità al presente di tanti passati” in cui le informazioni, i dati, le date, gli autori, sono scritti sul retro di questo mare galleggiante 3. L’indirizzo del nuovo museo era stato programmaticamente espresso sulla rivista Habitat, fondata dai Bardi: “Occorre concepire nuovi musei, al di là degli angusti limiti e delle prescrizioni della museologia tradizionale”, niente più bagni d’antichità e di cose morte ma organismi vivi.
Da sempre contrario al feticismo dell’oggetto museificato, anche Villa si ritrova perfettamente in questa idea. Il poeta lavorava a stretto contatto con Bardi, “lunghe ore come sequestrato nello studio”. I testi di quegli anni portano la testimonianza delle ricerche che ossessionavano Villa già dalla prima giovinezza, come il richiamo esercitato dal rito dei primordi. Per una mostra sulla civiltà preistorica, scrive di un sigillo sumero su cui è rappresentato uno squartamento sacrificale:
Un’opera di questa forza non può che essere ritenuta come il vertice verso il quale sono confluiti secoli e millenni di una intensa cultura, di una fantasia esacerbata e allucinata, che si accentua anche dall’urto tra stilizzazione ed espressione pura, tra i quali l’artefice si dibatte.
Studiando il portoghese, Villa mette ancora più a fuoco il rigetto del purismo linguistico, portabandiera fascista in Italia, opponendosi alla “normatività lusitana più classica” per difendere la “vitalità e l’originalità” dell’idioma brasiliano. Scriverà che ogni lingua “che non rifletta le condizioni reali di un ambiente, di una cultura, e si congeli in qualsiasi modo, per pregiudizio e retorica, perde le proprie funzioni, trasformandosi in convenzione priva di senso, perde ogni autorità e in poco tempo sparisce”. Come conclude Tagliaferri, la sua poesia si darà per obiettivo una lingua “barbara, impura, in perenne dissidio”, irreconciliata e irreconciliabile, perché sorretta dall’ambizione di realizzare e pervertire ai propri fini quell’idioma degli angeli preannunciante il “silenzio divino”, teorizzato da Dionigi Aeropagita in Nomi divini e poi incessantemente rimodellata lungo il cammino del misticismo occidentale: non bisognerà rifuggire il brutto, tutt’altro, occorrerà anzi “discendere santamente verso dissomiglianze oscure (pros tas emphainousas anomoiôtetas) […] per innalzare la parte dell’animo che tende verso l’alto”.

Impure sono le edificazioni di Lina Bo Bardi, in questa rigenerazione che parte dal detrito, che fa del detrito la parte irreconciliabile della ferita. In una proiezione intatta di futuro, Lina inizia a raccogliere oggetti, minutaglie, utensili e frastagli di cose ormai vane e conservate fino all’estrema decrepità. Le facciate dei suoi edifici saranno puntellati da frantumi, oggetti rotti, ceramiche colorate da cui, talvolta, spunta il manico di una tazzina da caffè. Girerà il Brasile a partire dalle aree più povere di Bahia e Salvador, dove sbarcavano gli schiavi provenienti dal Golfo del Benin. Studia con attenzione le aree più derelitte, e diviene amica dell’etnologo Pierre Verger, anche lui transfuga, anzi, di più, da quando è arrivato si fa chiamare Fatumbì, nato due volte.
Per il restauro del complesso coloniale di Bahia, un vecchio edificio diroccato del XVI secolo, decide di fare un passo indietro, lasciando il suo segno solo nella grande scala centrale, realizzata a incastri con la tecnica con cui i contadini facevano i giunti tra i legni per i carri da buoi. Una scala senza parapetto, bellissima, (“un miracolo che stia in piedi” osserverà Van Eyck), quasi un vortice in cui tutto ciò che è vissuto è presente e contemporaneo, ogni sedimentazione rivelata nello specchio-frantume di un tempo circolare. O ancora la casa del Benin a Salvador, dove integra la paglia intrecciata e gli oggetti ritrovati al cemento armato; o ancora la SESC, vecchia fabbrica di barili di metallo destinata alla demolizione, ma di cui pure si innamora durante un pomeriggio di pioggia in cui sotto il tetto fetido e bucato una vasta umanità si ripara, chi giocando a pallone, chi con un teatro di burattini, le donne cucinando il churrasco (piatto degli schiavi, realizzato con gli avanzi delle cene dei ricchi). La fabbrica viene aperta da buchi (trou, fessure) che ricordano quelli delle cattedrali in rovina, levando i tramezzi e lasciando i grandi capannoni aperti allo sguardo, incanalando l’acqua in un vuoto incastonato. Dirà: “Io ho lasciato tutto com’è, ho portato solo l’acqua e il fuoco dentro”.

 

Scala elicoidale

 

Anche Villa esplora, è attratto da quella terra “dove i primordi non si cancellano”, dove gli dei “non ancora imbalsamati nei musei, regolano le piogge e i malanni”. Da par suo Lina, che ha tracciato una strada verso un’estetica del resto e della contaminazione, realizza con il Teatro Oficina uno splendido esempio di reviviscenza del genius loci: il teatro è una strada con accanto due impalcature metalliche, in cui serie di palchi sono sovrapposti per lasciare spazio in mezzo a ciò che lei chiama il terreiro elettronico, in omaggio al luogo dove veniva celebrato il culto del candomblé, antica religione afro-brasiliana, attraverso la danza spasmodica delle sacerdotesse.

Villa si sposta più volte a Rio ma anche a Bahia, a Porto Alegre e a Belo Horizonte, si avventura nell’Amazzonia meridionale, nel territorio dei Carajas. Visitando la Biennale di São Paulo può vedere da vicino le opere di De Kooning, Pollock, Calder e Moore, su cui scriverà a lungo in seguito. Frequenta artisti e intellettuali del gruppo Ruptura e partecipa persino alla realizzazione di un programma televisivo sulla preistoria; conosce gli italiani transfughi Gastone Novelli e Roberto Sambonet, collaboratori e sodali anche dopo il rientro in Italia; attraverso la mediazione di un docente universitario verrà a conoscenza di alcune fondamentali conclusioni di Heidegger che potranno conciliarsi alla sua poetica. Per la classe intellettuale brasiliana Villa, con il suo multiforme e pittoresco background, si era guadagnato la fama di inquietante e contestato profeta. Il poeta tornerà in Italia dopo circa due anni. Pietro Bardi finisce col tenerlo ai margini delle operazioni ufficiali più rilevanti a livello culturale e, a quanto sembra, non ci sarà un solo testo in cui il poeta verrà menzionato, a testimonianza della loro collaborazione, sebbene il rapporto fra i due, a distanza, si mantenga cordiale. Resta traccia, nell’archivio del MASP, di un testo in cui Villa si esprime entusiasticamente sull’operato dell’istituzione brasiliana: “Rimane il fatto che è il primo museo che nasce e si costituisce come strumento vivo, e non come cassaforte, o peggio, come cassa da morto del patrimonio artistico, e tomba per filologi”.
Lina Bo Bardi, Fatumbì anche lei come l’amico Pierre Verger, nata due volte, resterà invece in Brasile, dove morirà nel 1992.

Ma c’è ancora qualcosa da dire sul soggiorno brasiliano di Emilio Villa: nel testo dedicato a Piero
Manzoni, raccolto in Attributi dell’arte odierna 1947/1967, Villa rievoca il momento in cui l’artista lo aveva ufficialmente firmato, il 22 aprile 1961 alla galleria La tartaruga, eleggendolo a opera d’arte vivente.
Ebbene, pur essendogli evidentemente grato, il poeta sostiene che l’iniziativa del “giovane discendente di Duchamp” fosse stata in realtà anticipata da Yves Klein, che a sua volta aveva tratto l’idea da Ben Vautier, anticipato a sua volta, “per tramiti misteriosissimi”, dal brasiliano Putyguarra Lazzarotto da São Paulo do Brazil  neanche lui però inventore di questa pratica, “perché a Putyguarra lo ha passato Caribé (il cognome giusto non me lo ricordo), che lo ha passato a me, e ci siamo firmati, fermati, tutti e due sulla spiaggia di fuoco di Parapetininga, e poi su quella di Itanhaem, maggio e luglio 1951”.

Scriverà Villa in Poesia è (1980):

“[…] poesia è pigrizia irrigidita, con
un braccio appesa al ramo
dell’Albero della Scienza del
Bene e del Male; cioè
è una Scimmia che sta in
Brasile sempre appesa con un braccio al ramo di un albero (è la Preguiça)”

 


Note
1 L. Bo Bardi, Curriculum letterario, in M. Carvalho Ferraz (a cura di), Lina Bo Bardi [São Paulo 1993], Milano 1994, 9-12.

2 Aldo Tagliaferri, Il clandestino. Vita e opere di Emilio Villa, Mimesis Edizioni, 2016

3 Lina Bo Bardi. Architettura e vita tra Italia e Brasile, incontro al Maxxi del febbraio 2021 (https://www.youtube.com/watch? v=nQmENVCsRCk)

4 Emilio Villa, L’opera poetica, Editrice Le Lettere, 2013


In copertina: L’allestimento di Lina Bo Bardi al Museu de Arte de São Paulo, 1968

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