Di Gabriele Doria
Tutto ciò su cui l’occhio si posa ha una doppia vita, una sostanza altra.
P. Florenskij, Realtà e mistero
Nelle sue Storie di santi e di diavoli, che papa Gregorio Magno (540-604) scrive mentre l’Italia è invasa da Goti e Longobardi e Roma sconvolta da epidemie e terremoti, tutto è pieno di demoni, spesso sotto le mentite spoglie di divinità pagane degradate e fuggite: in questa epigrafia del disastro, i monaci sono le “lucerne sul candelabro” che “diffondono la loro luce a tutti coloro che stanno nella casa” del mondo. Il paese devastato nei suoi beni materiali, si rifugiava in una quotidianità del soprannaturale. Tra le varie figure minori di cui scrive, intrise di un’aneddotica lieve, drammatica, grottesca, Gregorio Magno parla del monaco Sant’Isacco di Siria.
Isacco fu tra i siri che ripararono in Italia dall’Oriente per sfuggire alle persecuzioni dell’imperatore monofisita Anastasio I Dicoro (491-518). Nel libro viene raccontato che il futuro santo si era rifugiato a Spoleto, in Umbria, nella chiesa di San Pietro che fungeva all’epoca da cattedrale della città. Ivi Isacco era rimasto in mistica immobilità tre giorni e tre notti fino a quando uno dei custodi, “gonfio di superbia”, lo accusò a gran voce di esibizionismo e “con termine rustico”, di impostura, colpendolo con uno schiaffo. Fu in quel momento che uno “spirito vendicatore” entrò in lui, lo gettò ai piedi di quell’uomo di Dio e iniziò a gridare con la sua bocca: “Isacco mi scaccia!”. Solo quando Isacco si distese sul corpo dell’ossesso, lo spirito maligno che se ne era impossessato si allontanò. All’improvvisa aura di santità che circondò il transfuga, egli rispose con l’anacoretismo: rifuggì la città e ogni possesso terreno per trovare un umile rifugio nell’isolamento e nella preghiera sulle pendici del Monteluco che sovrasta Spoleto, e che prende il nome dall’antico bosco sacro, il lucus.
Lucus (radura) è una delle parole latine deputate a designare l’ambiente boschivo, insieme a nemus (il folto della vegetazione) e silva (la foresta); Luceres era il nome di una delle tribù primigenie, e i luci sacri erano i luoghi abitati dagli dei ai quali veniva tributato il culto.
All’interno di una antichissima tradizione pre-romana, venivano tramandati riti legati a sacerdoti danzanti intorno ad arcaici miti silvestri, in cui a dominare era la figura del Rex Nemorensis, il “re del bosco sacro”, prefigurazione di Enea recante il ramo d’oro necessario alla catabasi infera. Uno schiavo fuggito che fosse stato capace di strappare la fronda fatale, lontana parente del ramo d’oro dalla caratteristica forma a forcella, si guadagnava il diritto di affrontare in duello il re-sacerdote, e qualora fosse riuscito a ucciderlo, di diventare nuovo re del bosco sacro. Il combattimento, di cui abbiamo testimonianza ancora in epoca antonina, doveva ricordare gli antichi sacrifici umani legati alla dea Diana Taurica.
È nel bosco sacro di lecci sempreverdi che Sant’Isacco stabilisce il suo rifugio, ed è qui che la sua fama di “uomo di santa vita” attira altri penitenti che iniziano ad occupare le molte celle e grotte naturali di cui è naturalmente trapunto il tessuto del territorio montano. Monteluco diventa così uno sterminato monastero di roccia: si sviluppa una forma di cenobitismo abbastanza frequente in Oriente, ma assolutamente rara per quei tempi in Occidente. Il nuovo gruppo che cerca di stanziarsi sul calcare del lucus procede alla maniera siriaca: i penitenti si raccolgono attorno a Isacco, maestro spirituale saggio ed esperto, praticando isolamento, lavoro e preghiera, il tutto in mancanza di una vera e propria regola, in un monastero che occupa l’intero monte.
From Monteluco to Spoleto è il titolo di un libro fotografico dell’artista americano Sol LeWitt, che raccoglie le polaroid scattate durante le sue passeggiate. Il libro, oggi estremamente raro, è stato pubblicato nel 1984, quando LeWitt era già un artista dalla fama piuttosto riconosciuta (ci si potrà qui rifare en passant a una battuta del film Manhattan, grande classico del 1979 firmato da Woody Allen, in cui il personaggio di Diane Keaton parla di un articolo prossimamente da scrivere sulla mostra di LeWitt al MOMA, e l’artista viene definito sopravvalutato).
Le fotografie di Sol LeWitt, disposte sulla pagina in una griglia da nove, immortalano muri sbrecciati, strade deserte, campanili, tetti, distese di nuvole e sentieri interrotti.
Il grande artista americano visse alcuni decenni a Spoleto, dopo essere stato iniziato alla cittadina umbra nel 1971 dalla sua gallerista italiana Marilena Bonomo, che possedeva una residenza estiva proprio a Monteluco. LeWitt acquistò poi a sua volta una casa e uno studio, lavorando per anni a stretto contatto con gli artigiani locali, e disseminando il territorio di opere (come i Wall drawings a Palazzo Collicola, o i disegni a matita sui muri della Torre Bonomo). Tutti i giorni, alle sette del mattino, Sol LeWitt camminava da Monteluco al suo studio di Spoleto attraversando il poderoso Ponte delle Torri (oggi chiuso) ricavato da un ex acquedotto romano, scattando fotografie. Questa costruzione è testimoniata in letteratura dai tempi del Dittamondo di Fazio degli Uberti (metà del XIV secolo), e colpì la fantasia di Goethe (che ne parla nel Viaggio in Italia) e del pittore William Turner, che lo immortala in una serie di schizzi, una serie di assalti alla carta del taccuino durante il passaggio in carrozza.

Se Gregorio Magno include nel suo racconto Isacco di Siria è perché probabilmente sentiva il bisogno di far sapere come anche pratiche appartenenti alla religiosità orientale fossero vive in Occidente, e ancora in Umbria, limpido belvedere (“nil iucundus vidi valle mea spoletina” disse Francesco d’Assisi, che non aveva mai visto nulla di più giocondo), “grande giardino occidentale contemporaneo” influenzato dalle antropometrie delle migrazioni: anche LeWitt viene da lontano, anche lui percorre il sacro bosco, e nelle sue polaroid riesce a sorprendere la realtà, la sbreccia, nella gratuità di un gesto autentico, tra vicoli senza memoria e il tessuto inconsutile di angoli di cielo limpidissimo. Il libro è scritto in quella lingua che Lord Chandos descrive come “ancora ignota, in cui le cose mute si manifestano” (1) , dove lo sguardo, come ridestatosi dopo una passeggiata del sognatore solitario, Jean-Jacques Rousseau, riempie della sua esistenza lieve tutte le cose che percepisce, procedendo per piccole epifanie, un non-nulla che salva. Il territorio diviene organismo vivente che sente e rivivifica in sé le proprie preesistenze umane, animali e vegetali, che le trasforma in nuove nature e antropometrie.
Al di fuori dell’ambito di gallerie e collezioni, del valore mercantile del feticcio, l’opera maggiore lasciata da Sol LeWitt nel suo passaggio umbro è proprio questo rifare lo sguardo, una topografia
dell’impermanente e del non visibile, in un luogo continuamente restaurato da memoria e amnesia.
Bibliografia
Gregorio Magno, Storie di santi e di diavoli, Mondadori, Milano, 2006
Marrone, Vio, Calvelli, Roma antica. Storia e documenti, Il Mulino, Bologna, 2014
Sol LeWitt, From Monteluco to Spoleto, Van Abbemuseum, Eindhoven, 1984
Note
1 Hugo von Hofmansthal, Lettera di Lord Chandos, Marsilio, Venezia, 2017
In copertina: Sol LeWitt nel 1961, nel suo appartamento a Manhattan

