, ,

Riddance, il perturbante viaggio di Shelley Jackson tra i nostri morti (di Giorgio Castriota Skanderbegh)

«Così mi avvicino al punto di fuga»

 

 

«Devo la mia scoperta dell’Istituto Professionale Sybil Joines a una libreria e a un fantasma»; il Curatore, un accademico i cui studi si concentrano sul proliferare di organizzazioni dedite all’esoterismo e alle pseudoscienze negli Stati Uniti tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, con queste parole apre la sua indagine, e apre a noi la porta nel mondo di questo atipico romanzo. Rina edizioni si avvale di nomi di rilievo per l’operazione: Riddance (2024), ultima fatica della scrittrice statunitense Shelley Jackson, si inserisce nella collana Água Viva, diretta da Luciano Funetta, e vede Valentina Maini in veste di traduttrice. Un importante recupero, o un’introduzione, per il lettore italiano; finora dell’autrice era disponibile in Italia solo la raccolta di racconti La melancolia del corpo (minimum fax 2004), ma la cosa si può difficilmente ascrivere a una pigrizia editoriale. Jackson, infatti, è nota per la sua inosservanza (disprezzo?) della forma canonica, e da quasi un trentennio sperimenta vie di narrazione alternative: già nel 1995 firma Patchwork, lavoro di hyperfiction in cui il lettore (spettatore? viaggiatore? partecipante?) si muove tra link che rimandano a nodi di testo, immagini, musiche, etc.; passa poi alla novella/performance d’arte Skin (2003) in cui il testo appare una parola alla volta, tatuato sulla pelle di duemila volontari. Questa stessa riflessione sulla narrazione corporea, (s)materializzata, fornisce l’occasione per entrare nel mondo dell’Istituto Professionale Sybil Joines per Portavoce di Fantasmi e Giovani dalle Bocche Udenti, situato nella cittadina di Cheesehill, in un New England tanto caro agli scrittori del weird.
La scuola, fulcro dell’opera Riddance (e infatti, nella versione originale, il suo nome occupa per intero il sottotitolo del libro) sostiene, attraverso la sua algida ed enigmatica direttrice Sybil Joines, di poter comunicare con il mondo dei morti; o, più precisamente, di poter sfruttare i particolari pattern di pronuncia di un balbuziente per poterlo fare diventare cassa di risonanza per gli spiriti dei defunti. Con metodi spesso poco chiari, dunque, la Direttrice Joines recluta bambini, spesso e volentieri strappati (o ottenuti?) da vite e situazioni disagiate. Una di questi bambini e la piccola Jane Grandison, paria, sede di quattro agenti discriminanti: donna, orfana, nera, balbuziente. Tra strumenti che hanno dell’incredibile, statue che rappresentano popolari modi di dire, pratiche che rasentano il maltrattamento, il lettore si trova a lottare per la verità nei meandri dell’Istituto e delle menti che lo popolano.

In una struttura più classica (per Jackson, quantomeno), che coinvolge l’epistolare e il manoscritto ritrovato, davanti al lettore si pone la ricostruzione accademica delle testimonianze intorno all’Istituto; non mancano illustrazioni, inserti di quotidiani locali, note del Curatore. Il processo narrativo vede l’alternanza dei resoconti, per cui l’Ultimo Dispaccio, cioè la trascrizione dell’ultimo viaggio nel mondo dei morti della Direttrice, è puntellato dalle pagine del Racconto della Stenografa (Grandison), ma anche dal diario di un antropologo in visita nell’Istituto. Più curiosamente, poi, compaiono anche le lettere che la Direttrice Joines indirizza ad autrici e autori morti da tempo, ma anche a personaggi immaginari delle opere di questi. Quando la parola permette di spostarsi tra i piani del reale e dell’irrealizzabile, del resto, cosa impedisce di scrivere a Melville, morto da trent’anni, o a Ishmael? Per la lingua di Jackson più che di un muoversi tra registri si deve parlare di un emergere, tra le crepe nell’armatura di formale patois pseudo-accademico primonovecentesco, di un sottostrato oscuro, ossessivo, ricorsivo, violento, che macchia le testimonianze fino a prenderne le redini, fino a costringere a porre in questione il documento che ci si trova davanti, l’identità e le intenzioni di chi lo ha redatto.
Lo stile permette di passare per direttissima a un’analisi dei temi che attraversano il romanzo, che vivono in simbiosi con le sue particolari struttura e scrittura. Riddance procede allo stesso modo come uno slow-burn e un anti-slow burn, nasconde e dichiara, ipotizza prima del lettore, o insieme a esso, argomenta, ritratta, imbelletta, disvela; non si vuole qui deprivare del piacere di scoprire, come un antropologo in erba, le particolari pratiche e i misteri dell’istituto, gli strumenti di tortura inseriti nelle giovani bocche, gli astrusi (?) esercizi, le sortite (??) nelle Terrebocca (Mouthlands). I pittoreschi insegnanti istruiscono gli allievi su come «gettarsi attraverso la propria bocca», all’indietro dentro sé stessi, per accedere il piano di realtà in cui i morti possono essere raggiunti, e varie testimonianze di un tale processo ci vengono rese. Una volta lì, ci viene raccontato, ci si trova davanti a un abisso oscuro, vuoto, a cui il necronauta esperto deve dare forma, se vuole percorrerlo, con le sue parole: deve parlare di pavimento, sentieri, case, e questi elementi si formeranno intorno a lui o lei, in un esercizio di grammatica letteralmente generativa. Joines è un’esperta di tale fatta, ma neanche lei è immune ai paradossi che un tale sistema prevede: se sono io a generare il mondo intorno a me, non sto forse generando me stessa? O non potrei essere la prole delle parole di qualcun altro?

Riddance ha la caratteristica di far riflettere sull’essenza stessa dell’autorialità e del narratore inaffidabile, quanto più si veste di rigore e scientismo. Gli esercizi, i diagrammi, le spiegazioni che
sfiorano la meccanica quantistica e si condensano nella disciplina della Necrofisica: può essere tutto il sogno di un’infelice? Può tutto questo essere la rivendicazione di eccezionalità di una tragica donna che ha dovuto subire un passato insopportabile? Può la volontà della Direttrice Joines di ascoltare dai morti le parole che avrebbe voluto ricevere dai vivi costruire un edificio fisico e teorico di tale portata? Può trattarsi solo della volontà di «bruciare il mondo giù fino al midollo e ricominciare da capo»? La corsa verso quel liberarsi (riddance) di sé, del proprio corpo, della vita? Sempre nella volontà di preservare il viaggio del lettore il più possibile intatto, valga un passaggio per tutti, che riesce a concentrare in sé molti dei temi fondamentali del romanzo.
Nella dodicesima parte dell’Ultimo Dispaccio, la Direttrice Joines si trova in uno stato avanzato del suo viaggio nella Terrebocca, e i suoi ricordi bagnano la pagina bianca, macchiano il suo viaggio, intrappolandola. Un passato orrendo, fatto di lutti e impotenza, di maltrattamenti e crudeltà, minaccia la Direttrice con la sua presa che scavalca gli anni. Joines naviga le trappole della sua mente (o delle Terrebocca?) con calma e coscienza; infatti si permette una citazione colta (Joines? Oppure Grandison? Oppure Jackson?): «È questo posto a confondermi. In questo posto il passato non è passato, tutto ritorna indietro. Eppure non com’era prima, ma come tutto si presenta qui: mutevole, mutabile. Il dito mobile scrive e, avendo l’autorità di chi ha scritto, torna indietro per eventuali modifiche» (p.358).

L’ultima frase è una parafrasi di un verso del grande poeta, astronomo, matematico, scienziato
persiano Omar Khayyam, che compose la sua raccolta di quartine Rubʿayyāt nell’Undicesimo
secolo. Ma non una parafrasi dell’originale, bensì della molto libera traduzione in inglese a opera
dello scrittore inglese Edward Fitzgerald del 1859.

La quartina LI della prima edizione inglese recita:

The Moving Finger writes; and, having writ,
Moves on: nor all thy Piety now Wit
Shall lure it back to cancel half a Line,
Nor all Thy Tears wash out a Word of it.
Il dito in moto scrive; e, dopo scritto,
passa oltre: né tutta la devozione tua, né tutto il tuo Spirito
potriano allettarlo a tornare per cancellarne un mezzo rigo,
né tutte le tue lagrime lavarne una parola via.
(trad. Fulvia Faruffini, 1914)

Il passato è scritto, è una terra inaccessibile, sorda a preghiere e intelletto. Il mondo che è stato non giace alla nostra portata. Eppure per la Direttrice Joines non è così, e infatti si assume la paternità della parafrasi di una traduzione poco letterale, l’imposizione al passato delle proprie «eventuali modifiche». La copia di una copia, di una copia, finché non sarà perfetto, finché l’autore della prima iterazione non si perderà nella nebbia. Una barriera interpretativa dalla quale ci mettono in guardia sia Sybil Joines sia Valentina Maini nella sua nota che precede il testo.
Con Riddance, Shelley Jackson ci dona un’opera di raro valore, in cui il viaggio si costella di fermate imprescindibili, coscienze sovrapposte, dubbi continui, riflessioni sulla perdita, e su tutti
coloro che non hanno voce; portandolo in Italia, Rina edizioni presenta una delle uscite più interessanti del 2024.

 


In copertina: artwork by Paolo Uberti


 

Lascia un commento

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.