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L’amore è sparito dalla narrativa? – Di Deborah D’Addetta

Recentemente mi è stata fatta questa domanda: esiste ancora l’amore romantico come argomento protagonista della narrativa contemporanea? Mi spiego: la quaestio si riferisce al dubbio che oggi non si parli più d’amore rappresentandolo in termini assoluti, totalizzanti, “classici”, se così possiamo dire. Non si parla più d’amore come facevano Shakespeare o Bulgakov, Jane Austen, le sorelle Brontë, Tolstoj, Márquez, Alighieri.
Voglio chiarire che da questo discorso è escluso il romance e la poesia. Non prendo in esame la letteratura in toto, ma la narrativa odierna non di genere: romanzi lunghi, brevi, autofiction, fiction, racconti. Ciò che è emerso dalla discussione è che oggi l’amore, come tematica cardine o cornice di una storia, forse ha perso la sua connotazione di perfezione, di incontrollabilità, di ineluttabilità, ha abbandonato la sua aura di sentimento eterno.
Se accettiamo il pensiero precedente come vero, qual è il possibile motivo? Siamo diventati più fatalisti, cinici? Meno inclini a fidarci o innamorarci dell’altro? L’amore ci ha stufato, abbiamo paura di sembrare meno intellettuali o troppo naïf?

Provo a rispondere. Ho citato Bulgakov: è fatto abbastanza comune riferirsi all’amore tra il Maestro e Margherita come a uno dei più belli di sempre. Lo stesso si potrebbe dire per Florentino Ariza e Fermina Daza ne L’amore ai tempi del colera o per Elizabeth Bennet e Darcy in Orgoglio e pregiudizio. Storie d’amore tormentate che però finiscono con un happy ending. Abbiamo ovviamente anche l’altra faccia della medaglia: Romeo e Giulietta, Anna Karenina e Vronskij, Catherine e Heathcliff. Non si tratta di esaminare la dinamica o l’andamento, la buona o la cattiva riuscita del sentimento amoroso, ma la sua portata, la sua rilevanza all’interno della storia stessa.  Questi citati non sono romanzi che parlano solo d’amore, affrontano anche altre tematiche, ma tutto è messo a servizio dell’analisi minuziosa di quello specifico amore, a servizio del tentativo (riuscito) di eleggerlo quale unica cosa che importa al mondo. Si dice spesso che Dante abbia scritto La Divina Commedia per Beatrice. Se sia vero o meno non possiamo saperlo, fatto sta che noi oggi la leggiamo sapendo che lui l’amava. Probabilmente non ha mai potuto possederla, né spiritualmente né carnalmente, e questo è un ulteriore binario che arricchisce di senso la creazione dell’opera.  Se andiamo ancora più indietro non possiamo negare che la mitologia parli quasi esclusivamente di storie d’amore, la maggior parte delle quali tragiche, ma il punto non cambia. L’amore è la via. Allora la domanda diventa: quando abbiamo smesso (se è vero che abbiamo smesso)? Una delle persone con cui mi sono confrontata a riguardo ha avanzato l’ipotesi che il romanzo novecentesco abbia creato una rottura netta: non più il focus sul sentimento romantico ma sulla ricerca dell’io, sull’introspezione, sullo svisceramento di un disagio interiore figlio del suo tempo. 

Ho precisato in apertura amore romantico. Non sto quindi concentrando il dubbio sull’assenza assoluta dell’amore come tematica nella narrativa contemporanea, ma la sua vocazione a esserne protagonista indiscusso. Se penso ai testi usciti quest’anno che ho letto da gennaio fino a oggi non mi viene in mente niente che presenti questo requisito. Ovviamente (ed è questa la cosa più curiosa) l’amore non manca mai, anche come tematica collaterale, ma viene relegato alla sfera del sesso, della patologia, viene messo da parte perché la questione più urgente è capire se stessi, è scavare a fondo nei propri traumi.
Perché l’amore supremo, quello di tipo nerudiano o shakespeariano, è relegato alla sfera del romanzo di genere romance o rosa? Alla poesia? Al cinema? Alla musica? La musica non sembra aver subito questa emorragia: di testi che parlano d’amore romantico, anche piuttosto svenevole, ne escono mille al giorno.  Probabilmente è una questione generazionale: oggi un millennial che scrive una storia d’amore alla Via col vento verrebbe preso per ingenuo, anacronistico, perderebbe un po’ di mordente nel mondo di un’editoria che si concentra sull’autofiction, sul disagio esistenziale, sul corpo, sulle battaglie per i diritti. Chi ha voglia di raccontare sdolcinatezze quando ci sono in corso guerre, pandemie, salute mentale precaria, femminicidi, tragedie di ogni tipo? Eppure il mondo è sempre lo stesso, abbiamo sempre avuto le nostre guerre, le nostre malattie, le nostre piccole e grandi tragedie. Se duecento anni fa l’amore era una cura o un’evasione, oggi è più un vezzo, un accessorio, un modo per caricare di altre aspettative il soggetto narrativo o narrante.

 

Gustav Wertheimer, Il bacio della sirena, 1882

 

Faccio due confronti molto stupidi e per nulla esaustivi, giusto per dare una misura circoscritta al dubbio: prendiamo Le notti bianche di Fëdor Dostoevskij (1848) come titolo moderno (e anche per dare lustro alla forma del racconto, troppo spesso sottovalutato) e Persone normali di Sally Rooney (2018) come titolo contemporaneo. Ho scelto questi due esempi per un motivo preciso: ciò che li accomuna è la voglia di comunicare, l’inattuabilità, il desiderio violento di trovarsi nell’altro ma non riuscire a scoprire come. Dove sta allora la differenza, a prescindere dalla data di pubblicazione? Nel racconto di Dostoevskij l’amore tra il narratore senza nome e Nasten’ka assume la connotazione del sogno, di una ricerca onirica del significato più profondo della vita, dell’amore, dell’esistenza stessa dell’uomo. In Rooney questa aulicità si spegne nei meccanismi più “terreni” fatti da relazioni violente, disagio sociale, aspettative sessuali. Se il primo tende all’infinito, il secondo si concentra sul presente, sul consumo del qui e ora, pena l’infelicità. Dostoevskij invece rappresenta l’esatto opposto: un uomo che, anche un tantino masochisticamente, va incontro con tutto il cuore a un amore irrealizzabile, che proprio perché irrealizzabile è eterno. Questo punto, Shakespeare e Fitzgerald (con Romeo e Giulietta, 1504-6, con Il Grande Gatsby, 1922) ce lo hanno insegnato molto bene.
Il secondo confronto, che forse più che chiarire la posizione precedente la contraddice (d’altra parte questo non è un articolo che cristallizza una posizione, ma uno che cerca di stimolare il dibattito): prendiamo Il dottor Živago di Boris Leonidovič Pasternak (1957) e Espiazione di Ian McEwan (2001) il quale, a mio avviso, racconta una delle storie d’amore tormentate più incredibili di sempre (ma potrei menzionare anche Suite francese, di Irène Némirovsky, 2004, o Uomini e no di Elio Vittorini, 1945). Sono tutti romanzi d’amore e guerra, chi più chi meno recente (Il dottor Živago fu iniziato nei primi anni del Novecento), che trattano l’amore come cardine, come pilastro per orientare la propria vita, accomunati dalla tragicità dei sentimenti non appagati. Espiazione è un romanzo di vent’anni fa e vale tanto quanto Anna Karenina.
Perché allora sembra che l’amor cortese non esista più nei testi di oggi? È ancora possibile parlare d’amore in narrativa senza risultare zuccherosi, poco accademici, fuori tempo massimo? Se ci fidiamo di McEwan, ad esempio, sì. 

Eppure è innegabile che i romanzi e i racconti odierni abbiano modificato i termini stessi con cui l’amore viene scritto, e parlo della sua filologia, della sua semantica. Un’altra persona con cui ho parlato di questo argomento ha sollevato proprio la questione delle parole: a suo avviso, abbiamo inventato nuovi modi per descrivere il dolore, il disagio, la depressione, l’instabilità emotiva, probabilmente in accordo con il cambiamento dei tempi, mentre il vocabolario amoroso è rimasto sempre quello, non si è evoluto.
Roland Barthes in Frammenti di un discorso amoroso dice: «l’innamorato appagato non ha alcun bisogno di scrivere, di trasmettere, di riprodurre»1 . Se dilatiamo in discorso, l’insoddisfazione esistenziale odierna si traduce in amori disastrosi, che poco hanno a che fare col romanticismo, con il lieto fine: non ci sono quasi più testi di narrativa contemporanea che parlano di storie d’amore finite bene, di matrimoni riusciti, di anime gemelle, e se ci sono (poche) sono sporcate dal deprimente, dalla pornografia, da finali quasi obbligatoriamente negativi.
L’amore non è più eterno, tende al nulla, laddove duecento anni fa (faccio approssimazione) ambiva all’infinito, all’universale, era un tema, una corrente letteraria, parlava al ricco e al povero, non a uno specifico soggetto dal quale si cercava empatia, ma all’uomo in termini di specie senziente, che prova dei sentimenti.
Ci sono eccezioni, come ho detto, Espiazione e Suite francese, ma semino un ulteriore dubbio: sono storie scritte pochi anni fa che però parlano di amori durante la seconda guerra mondiale. Questi stessi amori avrebbero avuto un impatto emotivo identico sul lettore se fossero stati ambientati nel 2000? Posso rispondere per me: non credo. 

Esiste però Chiamami col tuo nome di André Aciman (2007). Non è romanzo rosa, non è romance, non è autofiction. È un romanzo con la R maiuscola, una storia inventata che parla di due persone (non importa il genere o l’orientamento sessuale) che si amano. Fine. Senza se e senza ma. Non ci interessa come si conclude. Ci interessa che la tematica “amore” sia narrata in termini universali. Come pure esiste L’amante di Abraham Yehoshua (1977) con una delle sequenze descrittive della moglie di Adam, il padre protagonista, più strepitose di sempre.
Allora parlare d’amore romantico e puro si può ancora, ma lo facciamo di meno. Ci sembra di rimanere in superficie, di essere frivoli, laddove oggi allo scrittore o alla scrittrice viene chiesto di parlare di sé, dei suoi traumi, delle sue relazioni tossiche, dei problemi col suo corpo e la sua mente, con la madre, il padre, il capo a lavoro. Sia mai chiedergli di parlare della sua storia d’amore più bella. 

Non è un gran peccato? Io lo vorrei leggere un romanzo scritto oggi che tratti il tema come un tempo, che abbia il coraggio di mettere da parte il singolo con l’intenzione di unire le masse, di riportare l’attenzione sulla nobiltà dell’amore come sentimento che fa parte della vita, che crei personaggi talmente potenti da diventare simboli, esempi emblematici per costruire altre storie. Perché è vero che abbiamo modificato il nostro modo di amare, e quindi di scriverne, ma negare che esistano ancora delle storie di sentimento degne di essere raccontate (non importa se felici o meno) è un torto che facciamo a noi stessi, come lettori e come esseri umani.
Sento che ci stiamo perdendo qualcosa. 

Di Deborah D’Addetta


 

Note

1 Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi, 2014, pg. 31


In copertina: Ghismunda con il cuore di Guiscardo (part.), Bernardino Mei


 

Una replica a “L’amore è sparito dalla narrativa? – Di Deborah D’Addetta”

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