,

Fra i confini del vero e del tempo sorge Circe (di Annachiara Mezzanini)

Nata dall’unione del fuoco e dell’acqua, un insieme di gocce luminose, Circe fin dalla sua infanzia si è distinta tra tutte le sue sorelle e i suoi fratelli, accumunati dalla pelle di perla e dai capelli dorati. La sua lunga chioma scura la faceva apparire un’estranea tra le ninfe, sue parenti da parte di madre, e la connotavano caratterialmente: cupa, solitaria e introspettiva, amava osservare gli uomini mortali e, in cuor suo, invidiava loro quell’eterna condizione di fragilità, la loro caducità. L’essere divino comporta la consapevolezza profonda che, nonostante tutto, il tempo non avrà mai una fine. Circe, tale consapevolezza, non sempre riusciva a sopportarla.
Il suo animo era incandescente come il Sole che l’aveva generata: impulsiva, gelosa, carnale, non sopportava di subire sulla propria pelle ingiustizie e soprusi. Che donna complessa è quella che sa cosa vuole, ancor più temibile è quella che lo esprime, mettendo in chiaro soprattutto ciò che non è disposta a tollerare.
Esiliata dal padre, la sua impertinenza era inaccettabile perfino per gli Dei e, così, venne abbandonata su di un’isola tra le onde del Mediterraneo, avamposto della solitudine e della perdizione. Faro di sé stessa, rimase sola con i suoi pensieri e le sue belve, rese docili da tristi farmaci, come era solito cantare Omero, pozioni da lei stessa create, intrugli di erbe e magia. Nella sua isola, la figlia oscura del Sole cantava melodie che le tenessero compagnia, tesseva nel suo antro per passare il tempo, giaceva supina tra i prati incolti osservando le nuvole passare, mosse dal fiato dello scirocco che con sé porta il caldo e la salsedine dal mare.
La sua ieratica solitudine – di tanto in tanto – veniva interrotta dalle navi all’orizzonte. Le più audaci scendevano lungo la costa, abbracciavano con i propri remi le onde più vicine alla sua isola e, senza chiedere il permesso, approdavano su Eea. Dal promontorio, Circe, osservava la processione degli stolti risalire la folta vegetazione e lei, astuta, intonava il suo canto.
Da ragazza, secoli prima, aveva imparato che i mortali sono facilmente persuasibili. La sua chioma indomabile, la sua voce armoniosa, la sua statura divina ammaliavano i visitatori. La sua parola aspra, il suo sguardo glaciale, il suo potere sovrannaturale li facevano rabbrividire.
Servendo loro vino addolcito col miele, Circe si prometteva essere la migliore delle padrone di casa, ma non appena la mano si allungava troppo, non appena il fiato dell’uomo si faceva sentire vicino, la sua collera le inondava lo spirito, e la melodia prima cantata si trasformava ora in acido rimprovero e diretto incantesimo. Le membra di quegli uomini, d’acchito, mutavano in animale e le urla dei malcapitati si confondevano con i grugniti dei porci. La sua isola era intoccabile, la sua quotidianità imperturbabile. Chi osava valicare quel confine, pretendendo da lei il bel corpo e profanando la sua casa, finiva trasfigurato nella forma e rinchiuso in un recinto.
Per secoli, questo atto della maga è stato letto ed interpretato come un abominio della donna nei confronti degli uomini, un gesto di crudele magia verso i visitatori di Eea. In fondo, però, altro non era che una difesa contro chi, con violenza, cercava di intrufolarsi nella casa e nell’intimità di una donna sola, ma potente. La forza di Circe era la sua parola, la sua abilità nel proferire con decisione e fermezza il proprio pensiero contrario a quello dell’uomo. Ella, dunque, non era una maga in grado di lanciare sortilegi, bensì una semplice donna consapevole del vigore del proprio libero pensiero.
La sua auto-determinazione ha stordito molti uomini, Ulisse per primo secondo la tradizione – anche se di lei si parlava già nell’epos argonautico precedente a Omero – e a posteriori la sua figura è stata indagata e descritta da numerosi cantori e artisti.

Edmund Dulac la illustra come presenza regale, attorniata da fiere nere e dal mare al chiaro di luna che, attraverso giochi di riflessi e vortici, sembra proteggere le coste di Eea. Lo sguardo, posato oltre la sua spalla, osserva le navi avvicinarsi. Le mani sottili stringono delicatamente una boccetta, forse contenente qualche farmaco. La sua figura, in questa illustrazione del 1915, si staglia in mezzo alla scena e ci riporta un sentore mediorientale, un gusto particolare che ricorda le divinità indoeuropee, con i ricchi copricapi impreziositi da gioielli e le lunghe vesti decorate. Una profonda scollatura mostra il seno della maga; collo, braccia, vita, testa sono incorniciati da fili di perle nere e coralli. Le due pantere ai suoi piedi sembrano esprimere lo stato d’animo interiore di Circe, sospettose e pronte ad accogliere gli ospiti inattesi, vigili ad ogni imprevisto.
La vegetazione dai colori autunnali protegge e arricchisce l’attimo colto da Dulac: il fotogramma di una vita passata in contemplazione, nascosta dallo sguardo indiscreto di un intero Pantheon e di intere generazioni di mortali che, solo a piccole flotte, hanno tentato di carpirne i segreti più viscerali.
L’artista francese ha cercato di immaginare come potesse essere Circe sul suo promontorio, esule in un lembo di terra ai confini dell’estremo Oriente del mondo all’epoca conosciuto, terra di nessuno.

 

Edmund Dulac, Circe, 1915

La complessità di questa donna non è stata descritta solamente attraverso immagini bidimensionali. Secoli dopo le vicende narrate dai miti, Circe è divenuta corpo solido, tangibile, imperturbabile come il suo noto sguardo. Nata dalla pietra, attraverso l’ausilio della tecnica e fantasia di Charles Gumery, la maga di Eea nel 1860 ha trovato posto in un nuovo arcipelago, avamposto dell’arte europea e santuario delle anime che mai hanno avuto altra sostanza, se non quella pittorica o scultorea. I nuovi Dei, nostri contemporanei, sono i volti di chi un tempo poteva respirare aria come noi, sono i volti di chi è vissuto in epoche lontane e che ora sono tramutati dal sortilegio artistico in sempiterna presenza su tela.
Protetta da una nicchia del museo del Louvre di Parigi, oggi Circe vive immortalata come possente figura femminile: il braccio destro poggia con la mano rovesciata all’indietro sul fianco e regge un mantello che la copre solo parzialmente. Nell’altra mano, stesa lungo il corpo, tiene la sua bacchetta simile nella forma ad uno scettro, simbolo di potere e di autorità. Nel mondo antico, questo strumento era solito essere tenuto dagli uomini che, durante le assemblee o riunioni militari, volevano avere la parola. Non è un caso se Circe, una donna, colei che proprio attraverso la parola zittisce e muta gli uomini, stringa tale scettro, l’emblema della sua libertà e condanna.
La esse descritta dal suo corpo statuario, altro richiamo all’antichità e all’arte classica, termina con la testa di un maiale schiacciata dal piede, in una posa che richiama ai nostri occhi una rappresentazione cristiana e sacra della sconfitta del male, confondibile con una Madonna nell’atto di ripudiare il demonio, una Santa Margherita d’Antiochia ante litteram, che sconfigge il drago con la croce in mano, sua personale bacchetta.
Anche in questa immagine marmorea della maga il suo sguardo si confonde con l’orizzonte, fieramente, e il suo corpo spoglio si impreziosisce con gioielli ed elementi regali.
Impressa su carta o su marmo, la figura controversa e ammaliatrice di Circe è stata assiduamente decifrata come analogia della passione carnale e vendicativa, una femme fatale dei tempi antichi. Poco si è detto della sua sensibilità umana, caratteristica che l’ha distinta dalla propria famiglia divina e condotta a un destino di emarginazione. Nonostante sia un personaggio mitico, la sua presenza nella letteratura e nell’arte ha fatto di lei una persona vera, con una propria psicologia e complessità interiore tali da rendere dubbia la sua vera esistenza.

 

Charles Gumery, Circe, 1860.

Circe è vissuta realmente o è stata solo un espediente narrativo? Di lei si ricorda soprattutto la liaison con Ulisse, l’eroe dai molteplici talenti, caduto tra le braccia della maga, mentre faceva ritorno in patria dalla moglie Penelope. Circe l’amante, colei che affascina e trattiene.
Queste due donne, Circe e Penelope, hanno in comune molto più di quello che si è soliti credere. Amano lo stesso uomo, entrambe danno alla luce un figlio maschio, figlio di Ulisse, vivono circondate da usurpatori e violenti, sono sole, ricamano e cantano fingendo di perdere tempo. Sono due donne astute, che tengono alla propria vita e che difendono la loro casa e condizione: Circe non permettendo di essere violata, per mantenere la sua libertà; Penelope allontanando i propri pretendenti, pur di mantenere fede al suo giuramento nuziale. Altrettanto non si può dire di Ulisse. Conosciamo le loro vite, sappiamo dove sono nate e come hanno vissuto in autonomia per la maggior parte della loro esistenza, che essa fosse letteraria o effettiva. La loro intelligenza e complessità è spesso passata in sordina, preferendo sottolineare di loro solo gli aspetti più controversi e caratterizzanti. Le loro voci, però, hanno oltrepassato i confini del vero e del tempo.
L’immagine che abbiamo di Circe è in costante evoluzione, come ogni figura in grado di incarnare una pluralità di significati esistenziali; si alimenta e cresce in ogni generazione di lettore e osservatore, plasmata dalle parole degli antichi, si concretizza sempre e ancora nelle opere di qualche artista, ennesima vittima di questa presenza magica e divina.

 

Di Annachiara Mezzanini

Una replica a “Fra i confini del vero e del tempo sorge Circe (di Annachiara Mezzanini)”

Lascia un commento

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.