«Dato un oggetto qualsiasi esso sarà comunque
il punto di partenza e di arrivo
di un numero infinito di discorsi»
Vincenzo Agnetti
Il tempo si consuma, lo spazio si rinnova, e in questo rinnovarsi c’è qualcosa che viene restituito, non solo del passato ma anche del presente. In questo romanzo la vita, dopo un evento traumatico, riesce a scorrere solo in prossimità degli oggetti che hanno fatto la storia di una famiglia; oggetti che guidano sia i personaggi che restano che la voce narrante in terza persona, nel tentativo di disegnare una trama e di rispondere a inevitabili domande su cause, responsabilità, condizioni di sopravvivenza durante il processo di elaborazione di un lutto.
Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia (aprile 2024, pp. 208), edito da TerraRossa nella collana Sperimentali, è un esordio coraggioso: Michele Ruol sceglie di raccontare la storia non dalla prospettiva del tempo ma dello spazio, perlopiù domestico, e attraverso i ricordi indotti dagli oggetti e dai luoghi che lo compongono; via di accesso anche alle relazioni tra i personaggi: Padre, Madre, Maggiore e Minore. Una denominazione straniante che conferisce alla loro storia privata una valenza universale.
Sin dalle prime pagine veniamo introdotti in un paesaggio mortifero creato da una rete semantica di parole nette e inequivocabili, quali incendio, cenere, lapide, funerale, in cui si aggirano Padre e Madre. Per buona parte della lettura possiamo solo intuire ciò che è accaduto, ma le dinamiche dell’evento, in verità, sono secondarie: al centro c’è il resoconto di una sofferenza, ormai unica radice di azioni, stati d’animo, dialoghi, che si intensifica a contatto con le tracce di una vita passata lasciate negli ambienti familiari. Sebbene il desiderio di scoprire ciò è successo generi una notevole tensione narrativa, a prevalere è la curiosità per il rapporto che i personaggi instaurano con la realtà materiale dopo il trauma, quando vengono stanati con violenza nella loro angoscia da quegli stessi oggetti che un tempo li resero felici.

La storia degli oggetti della casa non è una semplice premessa alla rappresentazione del dolore che segue alla perdita di persone care, ma lo genera e, paradossalmente, allo stesso tempo lo lenisce. Agisce sotterranea una lacerazione: Padre e Madre sono sicuramente simboli arcaici che devono resistere alla frantumazione dell’unità familiare e devono trovare dei modi per tornare a vivere in due. Sono capaci di farlo? La regressione alla coppia significa anche uno straziante ritorno a un certo tipo di non detto, a un modo di vivere in cui non bisogna esplicitare troppo per capirsi, in quanto non c’è più nessuno da educare: l’altro è un adulto come te, a cui non serve spiegare come va il mondo. Come facevano quando erano ancora solo loro due? Il silenzio mette una distanza profonda e anche gli oggetti che si portano negli spostamenti ormai diminuiscono, avendo a che fare solo con i loro bisogni e non più con le esigenze di chi è più vulnerabile. In questo Tutto squarciato il mondo torna a essere quello che è e non quello che si vorrebbe che fosse per Maggiore e Minore.
«Il resto della casa era diventato un territorio straniero, Madre un’estranea con cui non era più nemmeno sicuro di parlare la stessa lingua. Erano mesi ormai che non avevano alcun tipo di rapporto: i due spazzolini appoggiati nello stesso bicchiere, la loro maggiore intimità».
Un allontanamento è inevitabile, come inevitabile è la differenza delle reazioni dei due.
Madre, ad esempio, inizia un gioco pericoloso (e qui si apre un altro campo di tensione narrativa), intrattenendo una conversazione virtuale con un contatto di Minore; una persona che probabilmente crede ciò che lei stessa vorrebbe credere, ovvero che egli sia ancora vivo. A Padre non bastano le buone intenzioni di dare forza e protezione, in quanto gradualmente la sua vita psichica sarà compromessa.
Michele Ruol gestisce abilmente una forma che scompiglia la cronologia, una storia che viene ricomposta gradualmente attraverso 99 quadri: una tecnica che non diventa mai applicazione di uno schema in maniera meccanica (che poteva essere un rischio), perché la consistenza emotiva della pagina, sempre equilibrata, illumina la narrazione. Lo stesso montaggio e l’andamento selettivo della memoria affettiva, e quindi della scrittura, sembrano gli unici movimenti in grado di raccontare l’elaborazione di un lutto, lì dove mancano organicità e coerenza di un orizzonte.
Questo romanzo ci mostra che le cose che costituiscono il nostro mondo non sono semplici oggetti d’uso inerti. Essi, anche quelli più ordinari, custodiscono un mistero di cui si avverte l’alterità e col quale è possibile entrare in dialogo. E che forse non siamo fatti per esperire ed esprimere l’enorme, lo straordinario, l’arcano, almeno non senza passare per la materia e il suo potere trasformativo. Siamo fatti sicuramente per esperire la realtà quotidiana: nominare, spostare, buttare, rompere, riscoprire oggetti.
Di Maria Teresa Rovitto
In copertina: Yves Klein, Dipinto di fuoco senza titolo

