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Just dropped in – Intervista a Stefano Pirone x Pidgin Edizioni (a cura di Simone Beretta)

Di certe case editrici, l’identità la riconosci subito. Vedi una copertina e dici: è lei. Leggi una sinossi e dici: è lei. E poche volte sbagli. E quell’identità racchiude il senso di una ricerca tanto importante quanto quella di chi tempo prima, i libri che la casa editrice arriva a far tradurre e pubblicare, li ha scritti. Inutile avere un’ottima materia prima, inutile che qualcuno l’abbia saputa cuocere a puntino, se poi nessuno ce la mette a tavola. Il mondo è pieno di bei libri, ma non ci basta saperlo: vogliamo leggerli. E non è solo una questione di consumo, di gola letteraria, per così dire. Non vogliamo soltanto scoprire nuove storie, godere di lingue ben raffinare, di strutture impeccabili, ma vedere ampliato il raggio del discorso, messe in luce dimensioni rimosse e marginali della vita di tutti i giorni, nostra o altrui, e concederci il privilegio dello stupore e dello spiazzamento. Pidgin Edizioni, ormai da qualche anno, ci aiuta a farlo. Racconti di vite ai margini, letteratura post-coloniale e una scrittura tanto consapevole quanto essenziale: ecco cosa ricerca il fondatore Stefano Pirone nei testi che pubblica. E ecco come ce ne ha parlato.

 


Bentrovato Stefano, grazie per aver accettato di dedicare un po’ del tuo tempo a questa intervista.
Vorrei già fare una premessa: sentiti libero di rispondere o meno a ogni domanda, ma anche di ignorarle, di inserirne di nuove, di deviare verso ciò che ora ritieni importante per te e per Pidgin. Questo spazio vuole essere uno spazio di dialogo, e come tale non funziona in un verso soltanto. Le domande sono una guida, ma lo spazio è a tua disposizione. Attraversalo come meglio credi.
Vado con la prima.
Quest’anno, sono sette anni di Pidgin. Sette anni da Il Reattivo di Masande Ntshanga, primo libro che hai tradotto e pubblicato per la tua casa editrice. Cosa vedi, guardando indietro?

A pensare che sono passati sette anni dalla prima pubblicazione, due pensieri mi balenano per la mente: “Già sette anni?” e “Solo sette anni?”. Questo perché al tempo stesso mi sembra di aver fatto poco e di aver fatto tanto: poco in termini di quantità di libri pubblicati, per i limiti naturali di una gestione pressappoco individuale della casa editrice, e tanto in termini di esperienze accumulate, tra soddisfazioni e batoste. E il valore di questa esperienza è inestimabile: se l’avessi avuta sin dall’inizio, invece di cominciare questa avventura praticamente al buio, non posso che pensare che adesso le cose sarebbero in una certa misura diverse.

In un’intervista di tre anni fa, dicevi di aver scelto il nome Pidgin per il significato della parola. Pidgin, per chi non lo sa, sono le lingue informali che si formano in un contesto di ibridazione culturale: quei miscugli caotici nati dall’incontro fra idiomi locali e importati, che, se diffusi, ambiscono a diventare prima lingue creole e poi ufficiali.
Quanto è ancora viva, in te e in Pidgin, la volontà di ricercare nuovi linguaggi?

L’attenzione verso il linguaggio è rimasta invariata: uno dei modi per scuotere i lettori dalla loro confort zone è mettere in discussione la lingua stessa, specialmente quella letteraria, a cui sono abituati. Ma la parola “pidgin” è stata scelta anche per altri motivi: la volontà di creare un ponte per raccontare la vita ai margini, quella delle persone “schiacciate”, nonché di dare spazio alla letteratura post-coloniale. Queste tre caratteristiche della casa editrice sono tuttora esercitate, e a maggior ragione con l’inaugurazione della collana “Mangrovie” dedicata proprio alla letteratura post-coloniale contemporanea.

Fin dall’inizio hai scommesso su un certo tipo di letteratura underground, capace di sperimentazioni su lingua e struttura quanto di arrivare dritta allo stomaco. Una letteratura che si sveste della sua patina e non disdegna il weird, lo humor e il grottesco, trattando temi sempre molto attuali. Ci spieghi cosa ti colpisce in un testo, e cosa ti fa pensare: questo è da Pidgin?

Un testo mi colpisce soprattutto nella misura in cui lo trovo stimolante su uno o più livelli, nella capacità che ha di penetrare sotto la mia pelle – alquanto desensibilizzata – e nella frequenza con cui lo fa: per me è fondamentale l’essenzialità di un testo, ovvero la misura in cui si riduce a ciò che non può non essere detto, e quanto il testo è consapevole di se stesso, come opera letteraria e opera d’arte in generale. Il più delle volte questi due fattori si traducono in scritture minimaliste, ma non necessariamente. Ci sono alcune parole chiave che ronzano nella mia testa: schiettezza, disillusione, consapevolezza. Quel che dà a un’opera la sensazione di essere stata scritta non per trasmettere un’idea di sé ma per – talvolta disperata – necessità.

Cosa significa, oggi, essere editori indipendenti in Italia? Che posto trova Pidgin in un sistema editoriale che si regge in larga parte sulla sovrapproduzione? Come sono cambiate le cose, sotto questo punto di vista, nell’arco di sette anni?

Nel corso di questi anni, ho l’impressione che le cose siano cambiate in peggio: i problemi del monopolio nella distribuzione editoriale si sono solo acuiti, lasciando il settore senza alternative ai grandi distributori, alternative sostenibili che permettano ai più “piccoli” di finanziare e dare visibilità ai propri progetti. Nel frattempo, ci sono stati aumenti dei costi in ogni passaggio che si frappone tra l’editore e il lettore, dalla carta per la stampa alle spedizioni. Persino registrare le informazioni editoriali di un libro comporta costi aggiuntivi, adesso. In proporzione, questi rincari li patiscono di più le piccole realtà. E con i prezzi di copertina dei libri che necessariamente aumentano, diventa ancora più complicato contrastare l’allontanamento delle persone dalla lettura e creare un fervore attorno all’editoria. Pidgin Edizioni è riuscita nel suo piccolo a scavarsi una propria nicchia, producendo pochissimi libri all’anno e mettendo al centro di tutto il progetto, scelta che paga soprattutto in termini di riconoscimento. Ma realtà come la nostra, in questo sistema economico e a maggior ragione con i problemi specifici dell’editoria, sono sempre appese a un filo. E non è detto che possano sopravvivere altri sette anni.

 

Just dropped in
Intervista a cura di Simone Beretta


In copertina: artwork by Horacio Quiroz


 

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